Ci sembra interessante seguire l’analisi che fa Bia Sarasini sulla necessità di non perdere la memoria sulla articolata storia delle donne e il futuro che ci aspetta.

di Bia Sarasini da Donnealtri

Il 3 giugno scorso migliaia e migliaia di donne argentine, richiamate dalla convocazione di NiUnaDiMenos sono tornate a marciare per il terzo anno di seguito a Buenos Aires, fino a Plaza de Mayo, come in altre città del Paese. NiUnaDiMenos – Vivas nos queremos – El Estado es responsable, questo lo striscione di apertura. E accanto a obiettivi femministi classici come la legalizzazione dell’aborto, se ne radicano altri, come quelli portati dalle migranti che con gli slogan ni una migrante menos e migrar es un derecho humano innalzavano le bandiere dei paesi di origine: Cile, Bolivia, Paraguay, Perú, Mexico. Arrivate nella piazza due donne rappresentative delle donne del Paese – la giornalista e leader femminista Liliana Daunes e la Madre di Plaza de Mayo Nora Cortiñas – hanno letto insieme un testo all’insegna del rifiuto della violenza contro le donne, la richiesta di politiche contro la tratta delle persone, la legalizzazione dell’aborto, la necessità di politiche che sostengano i diritti del popolo e il rifiuto della criminalizzazione della protesta sociale. Cosa è stato, questo 3 giugno argentino? L’ultimo appuntamento di un anno che ha visto la sorprendente e definitiva diffusione internazionale di un movimento che dall’Argentina è partito tre anni fa, dallo sciopero degli ombrelli in Polonia nel settembre 2016, il 26 novembre 2016 in Italia e nel mondo, fino alla Women’s March on Washington del 21 gennaio 2017, e al grandioso sciopero internazionale dell’8 marzo scorso, finalmente tornato una giornata di lotta? Oppure si tratta dell’apertura di un nuovo ciclo, che raccoglie e rilancia la forza e le capacità di mobilitazione fin qui accumulate? La domanda è cruciale, la riprenderò in seguito. Si incrocia con un’altra la questione che mi sembra urgentissimo affrontare o, più realisticamente, almeno nominare. La si potrebbe definire la questione del patchwork.

Programmi e visioni

Come si può pensare che la soggettività femminile emergente, o più precisamente – le analisi e la visione del mondo che vengono dalla soggettività femminile emergente – costituiscano la trama e l’ordito di un progetto comune, tessano una visione per tutti? Donne, uomini, persone lgbtq, chi lavora e chi non lavora, anziani e giovani? Insomma l’insieme sociale nelle sue complesse articolazioni, individuali e collettive? Il punto da sottolineare, nella domanda, è la parola “comune”, cioè il contrario di un progetto inteso come giustapposizioni di parti che rimangono separate, non interagiscono. Non che il patchwork non abbia il suo fascino, ma perché le toppe non appaiano tali è necessario per l’ appunto un disegno, che armonizzi e dia senso. Così formulato, l’interrogativo mi si presenta tutte le volte che mi trovo davanti a un programma: di un partito, una lista, un nuovo soggetto della sinistra. Di chi ha l’ambizione, che mi sollecita e di cui sono partecipe, di trovare insieme voce e forza per chi subisce l’ingiustizia sociale, è vittima della crescente disuguaglianza di mezzi, risorse, opportunità che affligge la grandissima maggioranza degli umani. Il punto problematico è quando, inevitabile, risuona il richiamo, più o meno entusiasta o rassegnato, o rivendicativo: qui ci vuole la parte sulle donne. O sul genere, negli ultimi anni.

È il metodo, che non funziona: non produce risultati creativi. I testi possono essere perfetti, e spesso lo sono, le istanze giuste, senza omissioni, eppure rimane evidente che si tratta di un’ aggiunta. Al meglio di una strada parallela, che procede per conto suo, raramente e difficilmente si incrocia, converge. Non appare mai una visione, il progetto di un mondo comune e diverso, diversamente abitato, soprattutto diversamente pensato. Credo che sia arrivato il momento di misurarsi. La pigrizia e gli automatismi maschili non giustificano una mancanza di coraggio femminile.

Progettare. Prima ancora occorre immaginare. Vedere un mondo che non è quello che abbiamo disposizione. Volerne disperatamente un altro. Desiderarlo. Sognarlo. Scriverlo. Raccontarlo. E lottare per renderlo reale.

Immaginare mondi

Nel 1915 Charlotte Perkins Gilmann pubblica Terra di lei (Herland), seconda e centrale opera di una trilogia utopica. Al centro una terra abitata da sole donne, raccontata dallo sguardo incredulo e stupito di tre esploratori maschi, che la scoprono per caso. Si tratta di un testo fondamentale, che allo scoppio della prima guerra mondiale si colloca nel pieno della battaglia per il voto alle donne, lotta aspra e dura, con punte di violenza in genere dimenticate. Gli uomini, il patriarcato non ha ceduto facilmente, non è stato cortese con il gentil sesso. Se negli Usa alcuni stati, come lo Wyoming, già lo avevano concesso nel 1870, lo Stato federale promulgò la legge nel 1920, mentre in Gran Bretagna fu necessario aspettare il 1928. Gilman, attivista, scrittrice di ispirazione socialista, lei si definiva umanista, nel 1902 aveva scritto un testo importante, Women and economics, in cui analizza il danno per tutti del confinamento delle donne nella sfera domestica. Ma è nell’opera di immaginazione che prova a disegnare il mondo in cui donne libere vivono a propria misura. Senza entrare nei dettagli della narrazione, da mettere in rilievo è che l’immaginazione la porta a inventare un mondo di sole donne, dove la riproduzione avviene per partenogenesi, sulla spinta di un intenso desiderio che ciascuna sente dentro di sé. Un mondo meraviglioso, armonico, senza guerre, molto ben funzionante e organizzato, contro tutti i pregiudizi che volevano le donne incapaci di auto-gestirsi, fuori dalla tutela degli uomini. Insomma, terradilei. Un sogno potente, che ha ispirato generazioni successive, ha sostenuto, negli anni settanta, la mossa del separatismo, il taglio simbolico che le femministe in quegli anni hanno operato con le organizzazioni e le visioni politiche maschili. Fino ad abbandonarle. Non la visione di un mondo comune, ma la necessità di creare il proprio spazio, di darsi consistenza, non soggiacere. Borghesi o proletarie che si fosse.

Produrre e riprodurre

In verità non è stato così semplice. La baldanza dello slogan “anche la moglie di Agnelli è una donna”, cioè l’affermazione potente della sorellanza di sesso, sostenuta dalla forza della scoperta che “io sono mia”, non poteva cancellare il roccioso persistere delle differenze sociali. Senza pretendere di ricostruire, neanche per sommi capi, la storia del femminismo, si può dire che a partire dalla rivoluzione francese, dalle figure dell’inglese Mary Wollstonecraft (Vindication of rights of women)e Olympe de Gouges,(Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina) morta ghigliottinata, alcune questioni sono ricorrenti. Prima di tutti proprio i diritti, i diritti delle donne, in particolare l’uguaglianza, messa in tensione dall’essere differenti, proprio perché donne, nel momento in cui i borghesi, maschi, li rivendicavano tutti solo ed esclusivamente per sé. Anche contro gli altri maschi, poveri e proletari. Una questione tuttora aperta: i diritti tema che riguardano solo alcune, privilegiate per nascita, o sono di tutte? Negli anni settanta la polemica fu forte, non solo tra borghesi e proletarie, ma soprattutto negli Usa, delle donne nere verso le bianche. Come nel contesto post-coloniale. In effetti, ottenuto il diritto al voto, dopo più di un secolo di lotte, il femminismo della terza ondata si concentrò su altro. L’accesso generalizzato al lavoro e all’autonomia economica per tutte, per molti aspetti già ereditato dal femminismo legato al movimento operaio. La definitiva fine della tutela maschile, e soprattutto il desiderio, la sessualità. Insomma, il corpo, la riproduzione. Cinzia Arruzza e Lidia Cirillo, nell’interessante ricostruzione delle vicende dei femminismi che tracciano in Storia delle storie del femminismo (Alegre 2016) scrivono, a proposito del difficile rapporto tra donne ribelli, insomma femministe, e movimenti e partiti variamente innovativi: «Furie infernali e puttane nella Rivoluzione francese, incendiarie nelle barricate, ridicole ai tempi di Seneca Falls, nel movimento operaio l’insulto è “borghese”. Nella sinistra italiana, e non solo, il femminismo è stato a lungo borghese per definizione. Quanto alla socialdemocrazia spesso dal governo gestisce un modello di società caratterizzato da lavoratori in prevalenza maschi, in grado di mantenere la famiglia e di donne-mogli con limitate possibilità di occupazione e di carriera. Le acquisizioni successive al ’68 8divorzio, aborto, nuovo diritto di famiglia, cancellazione di barbare leggi sessiste, ecc) si spiegano con la combinazione tra la mediazione istituzionale dei partiti e la pressione di un movimento femminista di dimensioni simili a quelle della lotta suffragista».

La diffusione di massa della pillola anti-concezionale aveva reso possibile alle donne, tutte, la scissione tra sessualità e procreazione. Unita alla possibilità di lavorare, studiare, fare carriera, la maternità non era più il destino obbligato. Una ragazza era libera come un ragazzo: Del resto cosa cantava la deliziosa Sylvie Vartan nel 1968?: « Come un ragazzo ho i capelli giù/porto il maglione che porti tu/e con la cinta mi tengo su/i pantalon» (Comme un garçon j’ai les cheveux longs/Comme un garçon je porte un blouson/ Un médaillon, un gros ceinturon, comme un garçon). Sembrava si fosse definitivamente sciolto il nesso tra riprodurre e produrre. Si poteva non parlarne più.

I femminicidi, o la scoperta della violenza

Le acquisizioni simboliche, materiali, politiche di una generazione non passano alle successive nelle forme che i protagonisti avevano teorizzato, o sperato. Non è facile tenere conto, nello spazio delle esistenze individuali ma anche collettive, delle tensioni, delle spinte contrarie, delle reazioni che le conquiste raggiunte provocano. È successo al movimento operaio, come al femminismo. Era veramente difficile, dagli anni settanta, sporgersi fino a intuire l’attuale enorme crescita della disuguaglianza. Altrettanto arduo prospettarsi il rovesciamento di tutte le questioni legate al produrre e riprodurre. Solo che tutto ora si presenta in forma nuova. A partire dal modo di acquisire coscienza politica. Perché era anche duro pensare che un nuovo movimento, un nuovo processo di soggettivazione politica potesse venire dall’impatto di nuove generazioni politiche di donne – e uomini –con la violenza maschile. Era per fuggirne, che si era idealizzata e inseguita terradilei. Nel mondo comune dove le giovani donne oggi vivono, studiano e lavorano, non sopportano di scoprirsi sempre vittime potenziali, esposte al rischio.

Il punto sorprendente è che lo svelamento operato dalle interpretazioni e dall’attivismo femminista della violenza maschile manifesta ed esibita, la violenza del rifiuto dell’autonomia femminile nella vita sentimentale, cioè nella sfera intima delle relazioni tra donne e uomini, diventa una chiave di lettura condivisa ed estesa alle forme del potere contemporaneo.

Il potere sulla vita

Sono state le donne, a far saltare la divisione alla base del contratto sociale della modernità, tra pubblico e privato? È il loro processo di soggettivazione che ha cancellato la zona d’ombra in cui Hegel collocava la famiglia e la riproduzione? O Heidegger la cura? In altri termini, è il desiderio delle donne di abbandonare la professione di mogli, per usare il linguaggio di inizio Novecento di Charlotte Perkins Gilman, a far balenare agli imprenditori del neoliberismo le possibilità di mettere a valore i lavori di cura, immettendoli nel mercato? Si tratta di un backlash, il contraccolpo a una spinta innovativa e dirompente? O vi sono possibilità di autonomizzazione, se affrontate non con la gratitudine di chi finalmente trova un ruolo sociale meno ghettizzante, ma con la forza di chi detta le proprie condizioni?

Di fatto, il neocapitalismo ha abolito ogni mediazione. Esistenze, corpi, materiali biologici e genetici. Non ci sono contenitori protettivi, vincoli sentimentali e affettivi che tengano. Il valore viene estratto direttamente dalla vita, con una violenza immateriale e materiale nello stesso tempo. Senza residui. Bruciante. Per questo l’interpretazione femminista dell’antica e nuova violenza maschile contro le donne è scardinante e rivelatrice. Lungi dallo sbarazzarsene, il patriarcato diventa l’arma più affilata del neocapitalismo. Una specie di minaccia costante. E nello stesso tempo uno spostamento di attenzione, rispetto ai reali centri di interesse. In un’epoca in cui sembra vigere in alcune aeree una notevole indifferenza alle relazioni sentimentali e sessuali, tra gli umani, in uno stato di notevole disordine. Mentre accanto proliferano, ben poco disturbate, aeree di conservazione del passato, di restaurazione nostalgica del dominio alla vecchia maniera. Per questo il lavoro che le femministe indicano è trasformativo per tutte e tutti. Attraversa la vita quotidiana, intercetta le vite precarie segnate dai lavori precari e svalorizzati, crea nessi e connessioni che possono dare forza a nuove lotte e obiettivi comuni.

In questo contesto è in corso una lotta furente, che spacca e attraversa i femminismi come le sinistre. Al centro i corpi. Cosa è innovativo? Cosa regressivo? Gravidanza per altri, prostituzione, e sullo sfondo, vero obiettivo, l’aborto. Questo il terreno di battaglia. Apparentemente marginale, perché vige ancora il riflesso della zona d’ombra, in realtà si tratta di punti centrali, intorno ai quali si dislocheranno le future gerarchie sociali e i rapporti di potere.

Utopie contemporanee

La domanda è secca: esistono speranze di mondi possibili e diversi?   Se si guarda alla produzione di immaginario, il quadro è cupo.

Eppure. La distopia della grande scrittrice canadese Margaret Atwood, Il racconto dell’ancella, appena diventata una serie tv, ha supportato le proteste delle donne dell’Ohio, a metà giugno, contro il progetto di restringere il diritto di aborto. Hanno manifestato vestite da ancelle, cioè donne costrette a servire, a mettere al mondo figli per altri. Un mondo che ristabilisce il dominio degli uomini sulle donne attraverso il controllo della loro sessualità e capacità riproduttiva fornisce strumenti per opporsi a chi vuole ripristinarlo nella realtà. Se il vecchio contratto sociale sembra finito nella pattumiera, in fondo l’infinita vita pubblica può essere orientata con successo a diventare infinita vita al mercato, in un perenne palcoscenico di consumi senza scopo, l’annesso contratto sessuale è tuttora oggetto del contendere. La crisi economica, a partire dal 2007, ha reso tutto più visibile, e la soluzione non è chiara. Per esempio, che pensare del diffondersi, anche nei femminismi, dei proibizionismi? Se vanno contro la logica del mercato, certo non proteggono le persone coinvolte. Anzi, le lasciano esposte a ogni sopraffazione e violenza.

NonUnaDiMeno

Ritorno sui passi iniziali. La forza di NonUnaDiMeno, del nuovo movimento, è proprio nel saper immaginare. Nell’andare oltre. Il lungo lavoro intrapreso, gli otto punti dello sciopero dell’otto marzo, la stesura del Piano femminista contro la violenza maschile non è solo la risposta a problemi concreti, la ricerca di misure risolutive, nella classica esperienza pragmatica dei movimenti, nel momento in cui si relazionano con le istituzioni. Centri antiviolenza, procedure e protocolli. Il pregio del Piano, che dovrebbe essere pubblico a breve, è l’ampiezza dello sguardo, il parlare a tutte e tutti senza limiti, senza confinarsi nel proprio spazio. Per questo il Piano spazia dal lavoro alla cura, dall’educazione alla comunicazione. Certo non tutto è idilliaco, e i rischi di battute di arresto non sono del tutto evitabili. La stessa mobilitazione non ha ora i livelli delle grandi manifestazioni. Ma la rete è solida e attiva, l’elaborazione continua e vitale, le attiviste vivono tuttora un livello di militanza quasi eccezionale.

Mondi comuni, lotte comuni?

Una vecchia stampa di lotte contadine del primo Novecento raffigura donne sdraiate a terra, davanti a carabinieri a cavallo pronti a calpestarle. È un episodio che Bernardo Bertolucci riprende quasi filologicamente nel suo film Novecento, Stefania Sandrelli interpreta una di quelle ardimentose maestre, che si schierarono in difesa delle lotte in corso. Donne e uomini hanno lottato insieme, nella lunga storia delle lotte di emancipazione del mondo contadino e operaio. Eppure non hanno la stessa storia, la stessa strada verso la libertà. Una differenza che continua a pesare. Con scontri interni, durezze e anche violenze. Compreso lo stigma contro la donna pubblica. Socialismo e comunismo hanno puntato alla liberazione delle donne, ma con movimenti complessi e mai trasparenti del tutto. E qui è il salto necessario, l’impresa più ardua. Sognare un mondo comune. In cui coesistono e interloquiscono punti di vista differenti, per definizione non riconducibili a uno. Donne e uomini, le diverse soggettività lgbtq, le diverse specie animali. E la terra, sempre dimenticata e depredata. Insomma la vita comune.

Piccoli programmi

Ho iniziato con una domanda precisa, potrebbe sembrare che io stessa abbia divagato. Allora la ripeto. Si può fare un progetto, un programma che per brevità definisco di sinistra, che non si limiti a giustapporre queste storie diverse?  Ritengo che sia un punto essenziale, per la forza stessa dei progetti e dei programmi. Per questo ho ragionato divagando. Se c’è qualche fondamento, nel dire che il neocapitalismo entra direttamente nelle vite, con la violenza che il femminismo identifica con tanta chiarezza, dovrebbe essere un punto analitico di partenza, e non solo un paragrafo dedicato alle misure contro la violenza.

Ma in concreto, cosa significa? Cosa occorrerebbe scrivere?

Confesso che la risposta è impegnativa. Anch’io sono abituata a leggere programmi che partono da analisi geopolitiche, rapporti di forza tra potenze e classi sociali. Tensioni e conflitti. Dati economici. E non intendo farne a meno.  Ma ho lanciato una sfida. E allora ci provo. Per me è anche un modo per interpretare la forza del movimento, che dall’Argentina è stata rilanciata a inizio giugno a tutte e tutti.

Allora, comincerei così.

Viviamo in un mondo dominato dalla violenza. Degli uomini sulle donne. Del potere finanziario sulle persone e sul lavoro. Degli Stati gli uni contro gli altri. Gli scenari sono molteplici e connessi. Li analizzeremo dettaglio per dettaglio, alla ricerca del quadro complessivo, quello che si vuole mantenere invisibile, per rendere più forte il dominio. Il nostro sogno, la nostra speranza è proteggerci insieme, smontarne i meccanismi, resistere dove è necessario, cambiare tutto il possibile. Sono in gioco i nostri corpi, le nostre vite. (Continua)