Vision, di Margarethe Von Trotta, frutto di un lungo percorso di preparazione, è il film che racconta Ildegarda di Bingen, approdato il 21 ottobre al Festival di Roma dopo i successi a Telluride e a Toronto.La magnifica recitazione di {{Barbara Sukowa}} rende tutti gli aspetti di una delle più poliedriche e prolifiche personalità medievali, ma tutto il cast è di rilevante bravura – {{Heino Ferch, Hannah Herzprung, Alexander Held e Lena Stolze}} – e rende pienamente il senso della vita benedettina nel monastero doppio di Disimbodenberg, dove la comunità femminile era sottoposta a quella maschile la loro magistra dove obbedienza al Priore, all’epoca Kuno.

L’epoca, {{all’indomani della mancata fine del mondo}}, è quella delle importanti trasformazioni culturali che ebbero {{Ildegarda}} tra le principali protagoniste per le sue scelte religiose e politiche. Immagini raffinate, da arazzo, splendide nei colori, rendono {Vision} un film intimista e mai minimalista, rivelando al grande pubblico un’icona che sfugge a definizioni univoche. Ildegarda visse infatti interamente{{ nell’eccellenza e nella straordinarietà}}. Fu una grande mistica, profeta, teologa, predicatrice, letterata, compositrice di musiche e di canti religiosi, fondatrice di conventi, chirurga, erborista, pedagoga e altro ancora.

Nata nel 1097-1098 a Bockelheim, contea di Spanheim, decima figlia di Mechtilde e Hildeberth von Bemersheim, Ildegarda apparteneva a una famiglia della bassa nobiltà renana, residente ad Alzey, e prese il nome con cui è nota, Ildegarda di Bingen, solo più di quarant’anni dopo, quando, nel 1147, {{già celebrata come una santa in vita}}, fondò il monastero Rupertsberg, sul Monte s. Rupert, presso Bingen.

La fondazione concludeva un lungo e difficile percorso d’affermazione e di riforma della comunità benedettina femminile del convento doppio (maschile e femminile) di Disimbodenberg di cui era diventata {magistra sponsarum Cristi} circa nel 1136, sotto il priorato dell’abate Kuno.

Ildegarda era entrata in convento a 10 anni in qualità di “consacrata a Dio” dai genitori fin dalla nascita – secondo un’usanza che ripercorreva la consacrazione pagana di fanciulli e fanciulle ai templi – come aiutante e allieva della grande mistica {{Jutta di Spanheim}} che si era ritirata a Disibodenberg in eremitaggio. Ildegarda crebbe lavorando e pregando, spossata nel fisico da continue malattie legate sia alla sua costituzione, sia alla vita eremitica sia alle continue visioni, iniziate a tre anni e vissute inizialmente in segreto, nel dubbio della loro origine. Imparò a scrivere, a leggere e a cantare i Salmi durante l’Opus Dei (le otto cerimonie di preghiera previste dalla Regola benedettina), ma anche a curare le malattie, amare la natura e trarne medicamenti e gli alimenti, vivere in sintonia con la propria comunità e vivere radicalmente l’originario messaggio benedettino.

Diventata una delle menti più acute e dotte del XII secolo, Ildegarda confessò, adulta, al suo confessore, confidente e poi manuense Volmar (di Rupersteberg) l’esperienza visionaria, che seppe poi gestire con prudenza e attenzione. {{Il film propone momenti salienti dell’affermazione mistica d’Ildegarda}}: lo scontro con il Priore che la sospettava di essere una falsa profeta ispirata dal demonio. La prima trascrizione delle visioni che Volmar sottopose al clero di Magonza, iniziando, intorno al 1140 il ruolo che Volmar svolse a vita, di sostegno e di trasmissione, emblematico di quello svolto da altri monaci presso le successive profete duecentesche. Volmar fu legittimato solo a correggere la sintassi delle frasi dettate da Ildegarda e lui l’aiutò anche a stendere una perduta autobiografia che servì poi al suo biografo, Wilbert di Gembloux per scriverne la vita e gli atti di beatificazione (1233) e di santificazione.

Di grande sintesi ed efficacia è la scena del film che racconta l’indagine cui si sottopose Ildegarda, {{doppiamente rifiutata e pericolosa come donna e come visionaria.}}

Ildegarda inziò la stesura dello {Scivias} – contrazione della frase {Scito vias domini (Conosci la strada)} – intorno al 1141 e lo terminò intorno al 1151, dopo aver trasferito la sua comunità femminile nel nuovo monastero Rupertsberg, anticipato da una visione. Le prime parti dello Scivias furono visionate da papa Eugenio III, durante il Sinodo di Treviri, che le fece leggere alla presenza di prelati e di Bernardo di Chiaravalle. Il papa e il fondatore dei Templari colsero immediatamente la potenza dell’impianto visionario e la sua utilità nelle loro strategie. Vissuta al tempo del movimento politico-religioso riformatore e di sostegno al papato, nel periodo immediatamente successivo allo Scisma d’Oriente e preparatorio della prima Inquisizione con prima Caccia alle streghe (XIII sec.), Ildegarda, punta di diamante del badessato nobiliare poco disposto a perdere i suoi privilegi ma schierato a sostegno di quel movimento, trovò due grandi estimatori nel papa e in Bernardo che la ritennero {{“un’inviata da Dio”,}} un miracolo vivente. Anche per merito di Ildegarda, erede del portato teorico e politico di {{Matilde di Canossa}}, quel movimento vinse nel Concilio lateranense (1250), basilare per le sorti culturali d’Europa poiché definì le nuove scienze (scolastica, teologia e demonologia), e la normativa civile d’età feudale.

Il film sintetizza la grande importanza che ebbe Ildegarda sullo scenario europeo – le si rivolsero Enrico II d’Inghilterra, Irene imperatrice di Bisanzio ed Eleonora d’Aquitania, tra gli altri – nell’incontro tra la Sibilla del Reno e Federico Barbarossa, da lei incoraggiato e rassicurato nei suoi progetti imperiali, anticipati in una visione.

La regista, interessata ad esplorare le relazioni tra donne, racconta anche in modo magistrale {{l’intreccio di sentimenti intorno ad Ildegarda}}, il vasto lessico dell’amicizia, il portato affettivo della maternità e della filiazione monastica. Anche in queste relazioni {{Ildegarda espresse genialità e trasgressione senza mai uscire dalla dichiarata ortodossia}}. Lo scarto è significato, nel film, dall’intreccio silente e tenace delle tante, complesse vite, nel chiostro cui fanno da riscontro le misere strategie misogine; dalla capacità d’Ildegarda di aderire pienamente alla {Regola}, applicare {l’ora et labora}, ma rifiutare le crudeli penitenze corporali, imposte o autoimposte; dalla continua attività pedagogica che chiama le consorelle a spartire compiti e doveri ma anche saperi; dal sua {{capacità di tradurre in dolcezza il dolore}}, superando il portato culturale e la violenza dell’epoca.

Ildegarda fu sempre se stessa, plasmò il suo contesto sui suo desideri usando {{i suoi poteri visionari e la capacità del suo corpo di rimanere vigile a se stesso}} anche ai limiti della resistenza corporea (cosa che la salvò dall’accusa di stregoneria), nei lunghissimi periodi di immobilità seguiti da una visione e dalla guarigione. L’assoluta certezza che la verginità monastica fosse uno stato superiore a quello matrimoniale e (biologicamente) materno, le rese possibile creare per lei e per le sue suore una sorta di “paradiso in terra” a Rupersberg. Volle le sue suore vestite di bianco ({{il colore della teofania e dello splendore}}), i capelli sciolti a dimostrare “la bellezza della Creazione”, incoronate di fiori. Le istruì nel canto e nella musica da lei composta, comunicò loro {{la certezza della dignità dell’essere donne}} e, in quanto “spose del Re del cielo e del mondo” superiori alle regine e perciò da garantire nel lusso superiore a quello delle corti.

Lo scarto di cui sopra riemerge, nel film, con forza tragica quando la prediletta “figlia monastica” d’Ildegarda, non coraggiosa quanto lei, posta davanti alla scelta di obbedire al cuore e alla badessa preferisce obbedire ai doveri cui la richiama la famiglia, intenzionata ad accrescere nei poteri proprio tramite la gloria della vicinanza alla Sibilla. La forza tragica della {{“maternità monastica”,}} che per Ildegarda replica il rapporto con Jutta, segna il primo limite insuperabile nella sua vita. Ildegarda non riesce a trattenerla, non trova aiuto a farlo. {{Il conflitto tra potere civile e potere religioso}} è risolto, nel dramma, reale e filmico, a favore del primo; la Sibilla perde il controllo, entra nella disperazione. Le due morti presenti nel film, quella della suora incinta che si suicida per non essere messa fuori dal convento e quella della prediletta che muore nel suo volontario esilio, hanno sempre Ildegarda, il suo fascino, il suo carisma, il suo potere dell’affetto al centro.

A un ultimo aspetto di Ildegarda la regista ha dedicato la scena finale: la Sibilla del Reno lascia a cavallo il convento, come a cavallo, bambina, era entrata. Questa volta però {{inizia un’attività di predicatrice itinerante}} paritetica a quella delle eterodosse e non meno straordinaria delle altre. Perché Ildegarda fu anche in questo eccezionale: {{tradizionalista di ferro, contraria ad aprire i conventi a donne non appartenenti alla nobiltà}}, come richiedeva una parte femminile consistente del movimento riformatore, s’oppose con tutte le sue forze, le sue visioni e i suoi saperi, alle predicatrici dei movimenti cristiani eterodossi che dilagavano in Europa nel XII secolo e che cominciavano a salire sui roghi come eretiche e streghe.