Fermo restando il diritto delle donne a portare il velo ovunque, perché invocare letture interpretative separate per ambiti di ricerca? Non sarebbe il caso di creare delle sinergie tra lettura sociologica, antropologica, politica (anche quella!) e psicologica? La questione del velo islamico va, per esempio, contestualizzato rispetto alla situazione dei migranti.Il sito della “Libera Università delle donne” di Milano ha ripreso, dal sito “storie migranti”, l’articolo “[Veli svelati soggettività del velo islamico, interviste di Donatella Romanelli->http://www.storiemigranti.org/spip.php?rubrique97]i” nel quale si intende analizzare la problematica del velo islamico dal punto di vista psicologico.
_ L’autrice precisamente afferma che si è scritto molto sulla questione “spaziando dalla produzione giornalistica a quella antropologica e sociologica, tralasciando però l’ambito psicologico“.

Seguono alcuni racconti e commenti. Nell’ottobre 2003 in un liceo francese sono state espulse due studentesse “perché sospettate di essere costrette dalla famiglia a indossare il foulard.” In realtà, commenta Donatella Romanelli,” le ragazze dichiarano che la loro scelta e del tutto individuale”.
_ C’è il caso di Aishah Azmi che per essersi rifiutata di togliere il velo durante le lezioni viene sospesa.
_ In Italia il caso della maestra Fatima Mouayche esclusa dallo stage di un asilo nido di Ivrea “perché il suo hijab mal si adattava a dei bambini, che avrebbero potuto spaventarsi e risentirne psicologicamente. Un vero gioco e proprio gioco di ‘spostamenti’ e ‘proiezioni’ ove per fortuna la parte sana non desiste e continua a indossare con serenità parte della propria identità, rompendo così i meccanismi dell’’identificazione proiettiva’.”.
_ Poi c’è il caso di Parma di una bimba marocchina che è stata ripetutamente canzonata perché indossa il velo.

Tutti questi fatti e altri per l’autrice si riferiscono al velo “segno evidente di un’identità ‘Altra’ e ‘pericolosa’ “, ricettacolo di paure che porta alla conseguenza della negazione dei “reali e molteplici significati che il velo porta con sé.
_ La polisemia del velo riguarda la pratica religiosa, la tradizione, l’agency delle donne islamiche – che is manifesta diversamente da quello delle donne occidentali –la ribellione, l’affermazione di sé, la libera scelta, l’identità.”

Mi sembra che venga proposta una interpretazione “psicologica” in quanto tale nettamente superiore –più vera- rispetto alle letture antropologiche e sociologiche. Come dire: lasciamo stare gli sfondi, i contesti storici e i sistemi culturali ecc., perché ciò che conta è l’interiorità soggettiva.
_ In virtù di questa scelta di campo viene usato il gergo psicoanalitico freudiano (i meccanismi di difesa): proiezione di che cosa?
_ Spostamenti rispetto a che ?

E in che senso si verificherebbe la kleiniana “identificazione proiettiva”?
Fermo restando che le canzonature dei bambini verso una bambina velata certamente manifestano l’insofferenza degli adulti nei riguardi degli emigrati

Nell’articolo si racconta anche come le maestre sono state pedagogicamente abili nel portare alunni e alunne al rispetto delle svariate esperienze di vita.

Fermo restando il diritto delle donne a portare il velo ovunque, perché invocare letture interpretative separate per ambiti di ricerca? Non sarebbe il caso di creare delle sinergie tra lettura sociologica, antropologica, politica (anche quella!) e psicologica? La questione del velo islamico va, per esempio, contestualizzato rispetto alla situazione dei migranti.

Ha scritto Giuliana Sgrena ({Il prezzo del velo}, Feltrinelli, 2008) a proposito della legge francese che vieta l’esibizione del velo ( e degli altri dei segni religiosi nei luoghi pubblici) :” La legge ha innescato un dibattito dai toni molto aspri. Anche perché al velo, dentro e fuori i confini francesi, viene attribuito un forte valore identitario. Ma perché solo le giovani di oggi avrebbero bisogno del velo identitario, mentre le loro madri non hanno conosciuto questo tipo di necessità? Sono le nuove generazioni , quelle nate in Europa, a rivendicarlo. E spesso non sono nemmeno le ragazze ma gli uomini delle rispettive comunità a imporlo: la loro identità (quella maschile) viene costruita sul corpo delle donne. Così come il loro onore si basa sulla verginità! O per dirla con l’iraniana Chahdortt Djavann il ‘pudore e la vergogna della donna sono i garanti e l’espressione dell’onore e della virilità dell’uomo musulmano”.

Sorprende che l’articolista parli di scelta”del tutto individuale” mentre invoca il riferimento alla psicologia , dimenticandosi, o ignorando, che le “scelte” sono segnate anche dai vincoli o dai condizionamenti dell’ambiente .

La Romanelli ci ricorda che ci sono ragazze islamiche costrette a togliersi il velo in classe nelle scuole italiane. Ma è proprio così? Ci sono svariate interviste e studi che dimostrano come spesso sono le ragazze che (mi raccontava una professoressa delle medie superiori) infilano il velo nello zaino o nella borsa appena entrate a scuola perché lì i genitori non ci sono.

Scrive un’illustre islamista quale è la professoressa Biancamaria Scarcia Amoretti :”L’inconfutabilee asimettria dei rapporti tra i due sessi costituisce uno dei punti dolenti su cui i musulmani devono tuttora confrontarsi. ({Il Corano}, Ed.Carocci, 2009).

* foto tratta dal sito natinonfummo.blogspot.com