Molti uomini hanno recentemente parlato del valore delle donne, da Veronesi a Touraine, mentre è passata tra l’indifferenza l’affermazione di un economista dissidente, Raj Patel, secondo il quale il capitalismo si fonda sullo sfruttamento del lavoro delle donne. Non crediamo di meritare indifferenza. Vivere e operare in un’economia aperta, questa è in estrema sintesi la globalizzazione vista dall’economista, comporta conseguenze positive e negative.
_ Da un lato, ad esempio, le criticità tendono a propagarsi e l’apertura dei mercati favorisce ancor più la propagazione. Dall’altro ogni contesto cerca, più o meno sapientemente, di mantenere inalterate quelle peculiarità che giudica virtuose e la contaminazione può ritardare se non fallire, a prescindere se quel giudizio sia o meno condiviso e o condivisibile.

Nel mercato del lavoro si sta verificando in molti paesi, come conseguenza della crisi, una ‘eguaglianza verso il basso’ tra i generi in quanto il gap tra tasso di disoccupazione maschile e femminile tende a ridursi e convergere, ma ciò non accade in Italia, dove la forbice permane superiore ai due punti percentuali.

Quella che alcuni studi definiscono ‘{tenace determinazione}’ delle nostre donne a restare nel mercato del lavoro potrebbe essere una ‘necessità imposta’ da numerose circostanze contingenti.
_ Accanto all’innalzamento del livello di istruzione femminile che, ovviamente, induce le donne a desiderare di spendere sul mercato del lavoro l’investimento in formazione che loro stesse, le loro famiglie e il sistema nel suo complesso hanno fatto, è soprattutto la diffusione di lavori atipici, a termine, parasubordinati a fare sì che sia più facile per le donne trovare lavori alternativi se li perdono, mentre per i maschi la ricerca di un lavoro più garantito e meno flessibile può risultare lunga e difficile.
_ Infine l’andamento dei salari reali può non consentire alle famiglie di mantenere gli standard acquisiti e rende cogente per le donne la necessità di contribuire al menage della famiglia stessa (cfr. [Bettio, Smith, Villa->http://www.ingenere.it/articoli/le-donne-nella-grande-crisi-sfide-e-opportunit%C3%A0], 2009).

Non si può negare che ciò costituisca uno stimolo positivo al superamento di molti degli stereotipi che ancora condizionano la nostra società. In situazioni normali, o di equilibrio, le donne spesso seguono volontariamente o, meglio ancora, scelgono, un ‘binario da mamma’ e tralasciano i ‘binari più veloci’ nei quali peraltro le imprese preferiscono inserire quei lavoratori dai quali si aspettano ritorni più sicuri per ripagare i costi dell’assunzione.

Ne conseguono, come avremo modo di vedere nel seguito, salari più bassi per le donne, che implicano un costo opportunità atteso più basso. D’altra parte le donne italiane continuano a dedicare maggior tempo alla famiglia e alla cura, convalidando così la convinzione delle imprese. In questo modo le profezie che si autorealizzano (cfr. [Olivetti, Petrangolo->http://people.bu.edu/olivetti/papers/paper_jan07.pdf], 2007) e il circolo vizioso ricomincia e in qualche modo si perpetua. Spezzare questo circuito non può essere che positivo.

Per fare ciò credo sia necessario rafforzare le donne italiane nella consapevolezza del loro valore e dei valori di cui sono portatrici e in questa operazione ognuno dovrebbe mettere quello che può. Essendo un’economista, molto fiera di quell’apostrofo che l’esser donna mi attribuisce, posso contribuire proponendo numerose ricerche fatte anche in altri paesi, che ci confermano quanto sappiamo già, che siamo brave, che siamo “più”.

Non ci dobbiamo sentire in imbarazzo se utilizziamo anche riferimenti monetari, il denaro sarà pur vile ma costituisce un mezzo per attribuire valore, basta ricordarci che non può, né deve, essere l’unico nostro metro e trovare in noi stesse alternative non monetizzabili, per restare immuni da distorsioni potenziali.

Comincio da uno studio McKinsey [Women Matter Report->http://www.mckinsey.com/locations/paris/home/womenmatter/pdfs/Women_matter_oct2007_english.pdf] del 2007 secondo il quale le imprese con tre o più donne in posizioni gestionali di vertice ottengono un punteggio maggiore in nove indicatori che misurano l’eccellenza organizzativa: leadership, direzione, accountability, coordinamento, controllo, innovazione, orientamento verso l’esterno, ambiente di lavoro e valori.

Una ricerca di [Campbell and Mınguez-Vera->http://www.ivie.es/downloads/docs/wpasec/wpasec-2007-08.pdf] sulla presenza femminile nelle imprese spagnole evidenzia che un Consiglio di amministrazione ‘diversificato’ e soprattutto ‘bilanciato’ rispetto al genere è associato ad un incremento di valore dell’impresa. Non ci sono riscontri a sostegno dell’ipotesi che la presenza delle donne aumenti quando già l’impresa è cresciuta in valore, in pratica “l’impresa si può permettere di far entrare donne visto che sta bene”, contro “è un Consiglio più bilanciato a farla più ricca”. Né ci sono riscontri a sostegno della tesi che gli azionisti reagiscano negativamente a un Consiglio di amministrazione più diversificato, ma il dato oggettivo di per sé non è trascurabile.

In Italia ha fatto, per così dire, scuola [Fattore D->http://users.unimi.it/ferrera/sw/home.php?newsid=1&forward=fattored_it.htm&lan=it] di Maurizio Ferrera, che riporta altri lavori nazionali e internazionali, dai quali si evince che i fondi gestiti da donne sono più redditizi, le aziende al femminile hanno buone performance e quelle specializzate in beni e servizi per le donne ottengono risultati superiori a quelle che trattano prodotti ‘neutri’. Ne consegue che la valorizzazione delle donne mette in moto un circuito virtuoso fatto di maggiore produzione, minori conflitti sociali, più figli. Un lievito che fa crescere la torta del bene comune, il problema è allora come mettere in moto il motore, quale lievito usare.

Secondo Ferri (2009) e Adams, Ferreira (2009) la presenza femminile nei Consigli di amministrazione induce al miglioramento le imprese con peggiore governance e la diversità assicura benefici in quanto i gruppi misti sono più produttivi.
_ Ciò avviene anche in ambito formativo.

Nelle università tecniche statunitensi una maggiore presenza femminile al vertice si associa ad una quota più elevata sia di insegnanti donne, sia di studentesse (effetto di mentoring vs effetto scoraggiamento).
_ Azioni positive volte a garantire una presenza femminile tra i vincitori di concorso inducono una maggiore partecipazione femminile alla competizione e non generano costi in termini di minore performance media ([Bianco, Rodano 2010->http://www.ingenere.it/articoli/genere-e-finanza-meno-rischi-con-le-lehman-sisters]).

Per acquisire autostima può non essere secondaria la consapevolezza che il lavoro di cura ha un valore anche economico. Secondo una ricerca anglosassone (Tesco) un/una giovane al raggiungimento della maggiore età (18 anni) dovrebbe corrispondere alla propria madre per i servizi che gli/le ha erogato la bella cifra di 1,7 milioni di euro.
_ Gli anglosassoni sono talvolta un po’ esagerati e nello specifico hanno calcolato, ad esempio, attività di promozione e coaching, ma non si può negare che il computo abbia una sua logica.

Recentemente gli economisti de {La voce} hanno stimato che ogni 100 posti di lavoro femminili se ne generano altri 15/18, per i soggetti cui la cura viene delegata, e che il lavoro domestico potrebbe avere un valore di circa 300 miliardi di euro pari a 23 punti del PIL nazionale.

Secondo l’OCSE il PIL aumenterebbe almeno del 20%, se riuscissimo a portare il tasso di occupazione femminile al pari di quello maschile. Non nascondo una certa difficoltà a far riferimento al PIL in un momento nel quale questo indicatore viene da più parti messo in discussione.

Personalmente già negli anni ’80 ho proposto di effettuare misurazioni alternative del benessere. In questo esercizio può essere primario il contributo delle donne, anche per far emergere quanti degli indicatori proposti e messi in campo siano a loro riconducibili.

E a proposito di benessere dobbiamo riconoscere e tener presente che uomini e donne ne hanno un diverso concetto ([Della Giusta, Jewell, Kambhampati->http://www.ingenere.it/articoli/le-diverse-misure-della-felicit], 2008).

Infatti il livello di soddisfazione che si registra negli ambiti di vita considerati generalmente importanti – lavoro retribuito, salute, reddito, partner, abitazione e vita sociale – spiega la soddisfazione complessiva maschile più di quanto non faccia per quella femminile. Per gli uomini il successo professionale conta di più, forse perché le donne hanno meno opportunità di accesso a posizioni più interessanti. Le donne definiscono la soddisfazione personale in modo più ampio, che tiene nel giusto conto iterazioni e interdipendenze personali.

Numerose sono pure le differenze tra gruppi di donne: la soddisfazione delle casalinghe con un partner che guadagna molto è più focalizzata sulla casa, mentre per le donne che hanno figli minori di dodici anni e non hanno partner, la salute diventa il fattore più importante. Con o senza partner, le donne che lavorano e hanno figli minori di dodici anni sono quelle meno felici.

Non è neppure sempre vero quel che taluno afferma ossia che le donne non sono ‘comprensive’ nei confronti delle altre donne. Una ricerca dell’anno scorso su donne che operano in campo finanziario ci rimanda giudizi positivi su caratteristiche tipicamente femminili quali sensibilità, attenzione, comprensione alle quale si affiancano decisione, determinatezza e affidabilità. Secondo questo studio di M. Corsi le donne hanno buone capacità di mediazione, propensione all’ascolto, sono abili nell’ottenere informazioni, sanno creare rapporti di fiducia, sono di parola e trasmettono sicurezza.

Ed ora una provocazione: avete per caso sentito parlare di[ Lehman Sisters?->http://www.ingenere.it/articoli/genere-e-finanza-meno-rischi-con-le-lehman-sisters] Sicuramente no visto che la maggiore avversione al rischio avrebbe preservato le donne dalle esposizioni finanziarie che abbiamo vissuto con la crisi e, nella circostanza, le imprese con un elevata quota di donne nelle posizioni apicali hanno dimostrato una più forte resistenza (es. BNP Paribas contro Credit Agricole).
_ È probabile che le donne siano più attente al futuro per sé e per i propri figli, preoccupate per la disuguaglianza e interessate ai valori sociali ([Adams e Funk->http://www.eea-esem.com/files/papers/EEA-ESEM/2009/1220/ClassCeiling.pdf] 2010)

Occorre anche rammentare che secondo un recentissimo studio di Bankitalia, e analoghe ricerche fatte in Germania e Francia, le donne incidono molto nelle decisioni di spesa familiari. Non soltanto sui beni di consumo e su quelli durevoli, ma anche sulle scelte di impiego del risparmio.
_ Dunque le donne hanno e possono esercitare, più o meno consapevolmente, grande potere, e responsabilità, nei confronti dei produttori di beni e servizi. Il peso delle donne italiane sui consumi arriva al 53%, ma negli USA supera il 70% e in Svezia il 65%. Nel nostro paese pur producendo 170 miliardi di reddito annuo mobilitano acquisti per 490 miliardi.

Se quanto fin qui detto è vero non si capisce perchè alle imprese gestite da donne (25%) le banche italiane chiedono un tasso di interesse superiore dello 0,3% a quello dei maschi ([Lotti, Mistrulli 2006->http://papers.nber.org/papers/w14202], Alesina 2008) e sovente alle donne viene richiesto un avallo maschile.

La peggiore cliente bancaria sarebbe una donna garantita da una donna, visto che le si richiede un interesse maggiorato dello 0,6%. E dire che le imprese al femminile tendono a fallire di meno di quelle maschili (1,9 vs 2,2)! È dunque abbastanza inspiegabile che, contrariamente a quanto avviene in Europa e nel mondo, le Istituzioni italiane di microfinanza eroghino pochi prestiti alle donne sia per numero (28,9%) sia per ammontare (42,8%) ([Jayo e altri ->http://www.fininc.eu/gallery/documents/w5/1-b.-jayo.pdf]2008).

Ci sono anche molti luoghi comuni che meriterebbero di essere superati e probabilmente un approccio quantitativo e monetario può in questo senso aiutare.

Una [ricerca della Bocconi->http://www.nostrofiglio.it/gravidanza/16-30-settimana/gravidanza_lavoro.html] ha dimostrato che molte aziende non conoscono il costo della maternità, che rappresenta in media lo 0,23% dei costi diretti e indiretti del personale.
_ La gestione dell’incertezza e la riorganizzazione del lavoro per chi resta costituisce indubbiamente un costo, ma le donne al rientro dalla maternità hanno maggiori potenzialità e portano con sé nuove professionalità (risoluzione dei problemi, empatia, cura dell’altro …) che andrebbero esaltate con opportune azioni di accompagnamento

Non dovremmo indignarci nel constatare che se si parla di lei si sostiene che “una donna in maternità è una risorsa persa”, ma se è lui che diventa padre si afferma che “è diventato più affidabile”?

Mi permetto ancora una provocazione. Lo sapevate che il 15 aprile 2010 è stata la giornata dei differenziali salariali?
_ Perché una donna deve lavorare fino al 15 aprile dell’anno successivo per ottenere la stessa retribuzione annua di un pari grado maschio. Non a caso il Parlamento Europeo aveva chiesto nel novembre 2008 alla Commissione di presentare, entro la fine del 2009, proposte legislative per garantire una migliore attuazione delle norme UE in materia di parità retributiva tra donne e uomini. E molto si è fatto, si sta facendo e si dovrà ancora fare …

Nel nostro paese si evidenziano consistenti differenze nelle informazioni relative al fenomeno (da 9 a 27 punti percentuali) riconducibili alle differenti fonti delle informazioni medesime e alle diverse modalità di rilevazione delle stesse: secondo Eurostat l’Italia avrebbe un gap retributivo pari a 18%, di poco inferiore a quello registrato dai primi 10 paesi dell’Unione, decisamente più basso di quello dell’Europa a 15 e a 25 rispettivamente pari a 23 e 24,5% ([The gender pay gap – Origins and policy responses->http://ec.europa.eu/social/main.jsp?catId=738&langId=en&pubId=32&type=2&furtherPubs=yes], EU, 2006).

Ma la nostra situazione appare meno rosea per l’Human Development 2008/2009, che calcola il salario femminile in Italia pari al 46% di quello maschile contro il 75% della Norvegia e il 64/65% di Francia e Gran Bretagna. Secondo l’Unioncamere le differenze salariali, nel 2007 su 1.134 profili professionali la retribuzione media maschile era 28 mila euro, femminile 24.100 euro, sono riconducibili alla segregazione orizzontale e verticale delle donne, che finiscono per essere mediamente meno retribuite. Se ne deduce che “se l’occupazione femminile si distribuisse allo stesso identico modo di quella maschile, il differenziale retributivo di ridurrebbe dal 16 al 3,5%”.

Non dimentichiamo che i differenziali salariali risultano correlati ad altre variabili come, ad esempio, la partecipazione delle donne alla vita politica e sociale del contesto di riferimento (J. Dolado, 2007) e quindi incidono più di quanto potremmo supporre. È stato verificato empiricamente ([Bettio, Verashchagina->http://www.ingenere.it/articoli/quando-lei-guadagna-di-pi] e [Facchini, Zanatta->http://www.ingenere.it/articoli/anche-i-soldi-fanno-la-parit], 2009) che nelle coppie con reddito femminile uguale o maggiore di quello maschile la distribuzione del lavoro domestico è più equilibrata. Dunque il superamento del differenziale potrebbe contribuire al superamento dello stereotipo.

Abbiamo fin qui discusso di valore e valori. Dobbiamo in proposito rammentare che “chi professa valori assoluti non si propone di persuadere ma di imporre (…), mentre chi fa riferimento ai principi può sperare (…) di essere persuasivo; (…) a condizione che si sia ragionevoli, non fanatici” (G. Zagrebelsky).

Non credo che le donne abbiano dato prova di essere irragionevoli, né fanatiche. Ovvio che se vogliamo parlare di principi l’eguaglianza è principio irrinunciabile e, quanto ai valori, non vogliamo imporre i nostri valori ma siamo portate a sperare che possano essere riconosciuti e condivisi.

Nell’interesse di tutti. In questo percorso dobbiamo cercare alleati. Molti uomini hanno recentemente parlato del valore delle donne, da Veronesi a Touraine, mentre è passata tra l’indifferenza l’affermazione di un economista dissidente, [Raj Patel->http://it.wikipedia.org/wiki/Raj_Patel], secondo il quale il capitalismo si fonda sullo sfruttamento del lavoro delle donne. Non crediamo di meritare indifferenza.

Conoscere a fondo la situazione per intervenire con politiche mirate, razionalizzare e valorizzare l’esistente evitando gli sprechi, in specie dei talenti, puntare più sulla qualità che sulla quantità, dato che solo sulla qualità la competizione tra i sessi è possibile, palesare come una partecipazione più ampia alle decisioni collettive vada nell’interesse comune, in un’ottica di responsabilità sociale multistakeholders, possono essere questi alcuni dei nostri obiettivi. Parlarne e fare rete … esserci, è sicuramente un mezzo per il raggiungerli.

*Docente di Economia del Lavoro, Università di Genova, consigliera di parità Regione Liguria