Oggi, penso ancora a tutte quelle donne dimenticate e non riconosciute dalla storia, mamme, mogli e figlie, che in modo silente e senza obbligo alcuno (non erano renitenti alla leva), rischiando la propria vita e quella della loro famiglia, hanno dato il loro tributo alla lotta contro il nazifascismo per una società dove i valori fondamentali fossero: Giustizia…Diritti…Libertà!Arrivo al quinto piano di un condominio senza ascensore con il fiato in gola, suono il campanello e mi viene ad aprire Mimma.
E’ sola in casa e mi fa entrare in un salotto delizioso; sul basso tavolino davanti al divano su cui mi fa accomodare, una pila di riviste di Emergency.

Mimma mi dice subito: “ Visto che vai in CGIL, queste le ho preparate per te così mi aiuti a fare un po’ di pubblicità all’ associazione” . _ Quando le dico che conosco e sostengo Emergency da molto tempo si scatena; mi parla della sua amicizia con Teresa e Gino Strada, e appoggiandosi al bastone si alza dicendo “scusami un attimo” .

Dopo qualche secondo torna e mi mostra orgogliosa le foto in cui è ritratta insieme a Teresa e a Gino che l’abbracciano affettuosamente e un’altra con Vauro Senesi, fatte in occasione di una raccolta di fondi che Mimma aveva organizzato a Vercelli a favore di Emergency.
_ Aggiunge poi che anche in occasione del suo novantesimo compleanno si era premurata di avvertire gli amici di non spendere soldi in regali di cui non aveva alcun bisogno; se lo ritenevano potevano fare un offerta mettendo il denaro nella cassetta che aveva preparato: la somma raccolta sarebbe stata devoluta ad Emegency.

Mimma mi parla del suo rammarico di non possedere più la sua automobile e di dover dipendere da una sua cugina per andare a far la spesa, o dalle amiche che la vanno a prendere quando deve partecipare a qualche iniziativa. Aveva anche pensato di ricomprarsi una macchina, ma i medici l’hanno sconsigliata dal farlo non tanto per i suoi novant’anni, ma perché ha due bay pass al cuore ed è meglio non fidarsi.

Mi racconta anche dell’uomo che è stato il grande amore della sua vita e aggiunge: “Ci credi che, anche se ormai è morto da tanti anni, io ne sono ancora innamorata?”
_ Ma Mimma non è una donna che vive dei ricordi del passato; è un’attenta osservatrice della società contemporanea e mi stupisce la sua analisi realistica e puntuale sulla attuale classe politica, anche se poi aggiunge: “Non è per questo che ho combattuto”

{{{Parla Mimma }}}

Mi chiamo Annita Bonardo, sono nata il 16 ottobre 1920 a Vercelli.
Mio padre lavorava in un negozio di orafo, in origine militava nel partito Socialista, ma alla scissione di Livorno nel 1921 scelse di schierarsi dalla parte comunista (PCI), in cui militò per tutta la vita. La mia mamma faceva l’argentiera, cioè lavorava la maglia d’argento con cui si facevano le borsette per signore ricche e benestanti.
In famiglia mi hanno sempre chiamata “Mimma”, ho vissuto la mia infanzia e l’adolescenza in pieno periodo fascista.

Quando frequentavo la scuola elementare durante le vacanze estive la mia mamma mi mandava da una sarta, sia perché non bighellonassi in giro sia per imparare un mestiere che poi mi è tornato utile quando ho cominciato a lavorare in una sartoria da uomo.

A scuola era obbligatorio avere la tessera di “piccola italiana”, e ogni sabato era altrettanto obbligatorio partecipare all’adunata; era una cosa che odiavo fare e per un bel po’ di tempo riuscii ad evitarlo con la scusa che non possedevo la mantellina. In quell’ epoca esisteva la befana fascista, cioè il governo in occasione dell’epifania inviava un pacco dono a tutte le bambine e i bambini delle famiglie più povere. Io desideravo moltissimo una bambola! Quale fu la mia delusione quando nell’aprire il pacco al posto della bambola trovai la mantellina da Piccola Italiana e quindi fui costretta a partecipare alle adunate del sabato!

{{Il tempo della Resistenza}}

“Mimma” risulta in formazione dal gennaio del 1944; in precedenza aveva avuto contatti con l’organizzazione clandestina e con Anna Marengo per la costituzione dei Gruppi di difesa della donna e per l’aiuto ai combattenti della Libertà.
_ Ogni donna aveva un suo nome di battaglia, non tutte si conoscevano fra loro per evitare in caso di arresto e di tortura di svelare l’identità delle altre.

Le donne raccoglievano riso, indumenti, a volte disfavano persino i materassi per recuperare la lana, filarla con qualche mezzo improvvisato e farne calzettoni e guanti da portare in montagna ai combattenti insieme alle notizie sui movimenti nazifascisti.

{{Mimma racconta}}

La mia attività clandestina vera e propria è iniziata quando mi sono impiegata all’ufficio del Catasto, dove noi dipendenti venivamo automaticamente iscritte al Partito fascista, così che quando andavamo a riscuotere le nostre spettanze alla Banca d’Italia, c’erano già le detrazioni per la tessera: te le trattenevano direttamente da Roma. Personalmente ho potuto oppormi solo nel senso di non andare a ritirarla. Ad un certo punto, difatti, hanno fatto una cerimonia di consegna ufficiale delle tessere e io non sono andata, anche se sapevo che comportava dei rischi.
_ Un giorno ci fu un allarme perché stavano bombardando Vercelli,
uscimmo tutti per correre al rifugio. Al cessato allarme rientrando in ufficio ho incontrato una mia collega che piangeva e diceva di aver visto prendere dei giovani renitenti alla leva e di aver sentito che li avrebbero portati prima in Prefettura e poi dietro al cimitero per fucilarli.
_ A sentire questa notizia pensai che non potevamo restare indifferenti e che qualcosa dovevamo fare. Si è deciso che tutte le donne sarebbero uscite a manifestare perché non volevamo che quei ragazzi fossero fucilati.
_ Avvertite da me e da altre donne, le operaie della Setvis , della Sambonet e della Faini, sono uscite dalle fabbriche e tutte insieme, siamo andate in via Pietro Micca, a manifestare.
_ Ma dopo poco sono arrivati i fascisti e la polizia. Uno dei fascisti ha voluto sapere il motivo dello sciopero, e alla mia spiegazione mi ha chiesto se avremmo fatto lo stesso se ad essere fucilati fossero stati dei fascisti, io gli ho risposto certamente no, e lui afferrandomi per un braccio e mi ha ordinato di seguirlo in Questura.
_ Ma le scioperanti se ne sono accorte e facendo una gran ressa gli hanno impedito di portarmi via e, ad un tratto non so come, mi sono trovata sulla mia bicicletta insieme ad un compagno partigiano che mi ha aiutato a sparire in fretta e così sono entrata in clandestinità.
Ma io, anche se dovevo nascondermi, ero contenta perché la rivolta delle donne aveva raggiunto il suo scopo, quei ragazzi non furono fucilati.

Durante il primo periodo di latitanza, nonostante sapessi di essere ricercata , ogni tanto tornavo a casa per rivedere la mia famiglia e fu in una di questa visite che è piombata a casa mia la brigata nera, forse in seguito a una spiata.
_ Mi arrestarono e mi portarono in carcere al Beato Amedeo di Vercelli.
Fui deferita al Tribunale militare di Torino dove ci sarebbe stato il processo; durante il periodo di detenzione avevo il terrore di essere violentata, ma per onestà devo dire che nel corso degli interrogatori sono stata molto insultata e minacciata ma mai picchiata o torturata.
Nel frattempo i compagni partigiani temevano che il processo finisse con la mia fucilazione, e cominciarono a pensare come farmi scappare, ma mi fecero sapere che dovevo assolutamente farmi trasferire dal carcere all’ospedale.
_ Mi inventai dei forti dolori alla pancia e per alcuni giorni urlai come un’ossessa fino a quando il medico del carcere mi ha trasferita in ospedale, dove c’erano dei medici e degli infermieri antifascisti, che si inventarono una forte infiammazione all’appendicite per trattenermi in ospedale. Lì fui poi operata perché, anche se non era grave, l’appendicite era davvero da operare.
_ Dopo qualche giorno con la complicità di un’infermiera e l’aiuto dei partigiani riuscii a scappare e mi nascosero per otto giorni a casa di una donna antifascista, da lì mi spostarono a Roasio, in un ospizio gestito dalle suore.

Agli ordini di Cino Moscatelli, comandante della “Brigata Garibaldi” della Valsesia, mi sono occupata fino alla Liberazione del coordinamento dei “Gruppi di Difesa delle Donne e l’aiuto ai Combattenti della Libertà”.

Oggi, penso ancora a tutte quelle donne dimenticate e non riconosciute dalla storia, mamme, mogli e figlie, che in modo silente e senza obbligo alcuno (non erano renitenti alla leva), rischiando la propria vita e quella della loro famiglia, hanno dato il loro tributo alla lotta contro il nazifascismo per una società dove i valori fondamentali fossero: Giustizia…Diritti…Libertà!

* Testimonianza raccolta da Grazia Lombardi