Il video con l’intervista-testamento al capitano nazista Priebke morto a Roma di recente, circola sul Web inserito in ogni quotidiano online. Circola in realtà la parte che si riferisce alla strage delle fosse Ardeatine. L’intervistatore gli chiede di raccontare la sua versione dei fatti. Il capitano tedesco risponde asciutto e preciso in un italiano un po’ stentato. Mi è sembrato che venisse da lontano, a disseppellire una memoria: tutti/e sapevano, durante la guerra e l’occupazione tedesca, che ogni soldato tedesco ucciso avrebbe provocato la rappresaglia di dieci italiani ogni morto tedesco da fucilare seduta stante. Ancora negli anni seguenti la guerra era normale ascoltare degli ex fascisti ripetere come una cantilena che la colpa delle rappresaglie naziste ricadeva in fondo sui partigiani, che erano perfettamente informati di questa regola tedesca. Anche Priebke ripete esattamente quella tesi aggiungendo che “non era possibile rifiutarsi “ perché l’ordine era stato dato da Hitler e chi si fosse rifiutato, perché soldato, sarebbe stato fucilato con le vittime. Come si fa a non ricordare la lettera ai giudici scritta da Don Milani il 18 ottobre 1965 per il processo che lo vedeva imputato? Era già molto malato e non potendo recarsi n tribunale inviò una difesa scritta. Aveva scritto: “Avere il coraggio di dire ai giovani che essi sono tutti sovrani, per cui l’obbedienza non è ormai più una virtù, ma la più subdola delle tentazioni, che non credano di potersene fare scudo né davanti agli uomini né davanti a Dio, che bisogna che si sentano ognuno l’unico responsabile di tutto”. L’obbedienza non è una virtù…. Il processo era stato istituito perché aveva fatto l’apologia di un reato: la disobbedienza in nome dell’obiezione di coscienza. Nel febbraio del 1965 i cappellani militari in congedo della Toscana si erano riuniti in un convegno per celebrare l’anniversario dei Patti Lateranensi e, tra l’altro, avevano scritto al termine: «I cappellani militari in congedo della regione toscana, nello spirito del recente congresso nazionale dell’associazione, svoltosi a Napoli, tributano il loro riverente e fraterno omaggio a tutti i caduti d’Italia, auspicando che abbia termine, finalmente, in nome di Dio, ogni discriminazione e ogni divisione di parte di fronte ai soldati di tutti i fronti e di tutte le divise, che morendo si sono sacrificati per il sacro ideale della Patria. Considerano un insulto alla Patria e ai suoi caduti la cosiddetta “obiezione di coscienza” che, estranea al comandamento cristiano dell’amore, è espressione di viltà». Chissà se l’avvocato italiano di Priebke gli ha mai letto questa lettera per confermarlo (ce ne fosse bisogno) dell’esattezza della sua posizione? Don Milano aveva difeso l’obiezione di coscienza di fronte all’obbligo della leva militare che i giovani avevano cominciato a rifiutare andando, diritti, in carcere. Nella sua lettera ai giudici tocca un ambito che ridiventa di attualità con il “testamento” del nazista: “A Norimberga e a Gerusalemme son stati condannati uomini che avevano obbedito. L’umanità Intera consente che essi non dovevano obbedire, perché c’è una legge che gli uomini non hanno forse. ancora ben scritta nei loro codici, ma che è scritta nel loro cuore. Una gran parte dell’umanità la chiama legge di Dio, l’altra parte la chiama legge della Coscienza. Quelli che non credono né nell’una né nell’altra non sono che un’infima minoranza malata. Sono i cultori dell’obbedienza cieca. Condannare la nostra lettera equivale a dire ai giovani soldati italiani che essi non devono avere una coscienza, che devono obbedire come automi, che i loro delitti li pagherà chi li avrà comandati. E invece bisogna dir loro che Claude Eatherly, il pilota di Hiroshima, che vede ogni notte donne e bambini che bruciano e si fondono come candele, rifiuta di prender tranquillanti, non vuol dormire, non vuol dimenticare quello che ha fatto quand’era “un bravo ragazzo, un soldato disciplinato”…”. Seconda guerra mondiale, anno 1944, Friuli. Le truppe occupanti tedesche abbattono un aereo inglese. Uno dei piloti giunge a terra morto, l’altro gravemente ferito viene trasportato davanti alla scuola elementare occupata dalle truppe. Giace a terra tramortito dal dolore. Si forma un gruppo di persone che lo guarda mentre i tedeschi pretendono che si alzi in piedi. Una donna, Maria Pasini (formatasi con la Croce Rossa) si accorge che ha la spina dorsale rotta. Chiede all’appuntato della Guardia di Finanza che fungeva da interprete di tradurre. I tedeschi non sentono ragione, vogliono che si alzi prontamente in piedi e cammini. La signora, una quarantenne con le due figlie bambine accanto, alza a voce e intima di tradurre che in nome della Convenzione di Ginevra, il soldato ferito va rispettato come qualsiasi persona in quelle condizioni, una volta curato e guarito torna a essere un soldato. L’interprete invita la signora ad abbassare i toni perché i tedeschi si sono irritati e le fanno sapere che potrebbero arrestarla e deportarla. La signora insiste ancora più arrabbiata e alla fine ottiene il rispetto del ferito che in seguito morirà. La storia della seconda guerra mondiale è ricca di episodi come questi, anche tra i tedeschi civili e soldati sia in difesa dei civili sia degli ebrei. Eppure anche in questi giorni abbiamo sentito difendere il capitano: cosa poteva fare se non obbedire? Quella signora era la mia mamma, non esattamente collocata a sinistra o a favore dei partigiani e degli alleati.