“La vita al lavoro, il senso dei lavori: pensieri e pratiche femministe”: un convegno internazionale imperdibile! Titolava il comunicato stampa, firmato da Giuliana Beltrame, Alessandra Mecozzi e Nicoletta Pirotta, augurandosi che il “convegno, grazie anche allo spessore delle relatrici, possa offrire non solo un luogo di riflessione e scambio ma consentire una messa in rete non estemporanea o episodica di soggettività e pratiche per immaginare azioni comuni.”

 

I tre giorni, nella Casa internazionale delle donne, alla Lungara, 11-12-13 ottobre, sono stati più che una carrellata di relazioni interessanti su un tema che non perde mordente e proposto con sottolineatura femminista; hanno fornito una quantità di dati, approfondito aspetti poco o nulla dibattuti, narrato la contemporaneità e i possibili sviluppi futuri nel contesto lavorativo ma anche in quello della guerra e della pace in giornate in cui gli orizzonti internazionali s’incupivano ulteriormente.

“Mettere in discussione il concetto di crescita economica che sembra essere il breviario di ogni governo”, ha detto Heidi Meinzolt (Wilpf-Germania) parlando dei “diritti delle donne oltre il caso delle aziende”. Metterlo in discussione e considerare quanto possa cambiare il lessico economico. Nell’università ci sono docenti d’economia, femministe, che propongono altre angolazioni, con diverse soluzioni, ma i maggiori mass media non ne parlano.

Occorre introdurre regole in sistemi complessi ma è anche necessario soddisfare le richieste delle adulte e delle ragazze.

Ha parlato delle violazioni dei diritti umani che devono essere resi obbligatori anche nella normativa del lavoro. Ha descritto la situazione, in Germania – diseguaglianze nel lavoro e nelle carriere, maggioritaria e crescente povertà ed emarginazione femminile – invitando infine a partecipare alla campagna “Move the mony from war to Peace!”

Claudia Candeloro ha parlato della normativa italiana che “anche in ragione del processo di integrazione europea ha subito grandi cambiamenti negli ultimi decenni”.

Le grandi lotte del movimento operaio anni ’60 e ’70 del Novecento “avevano carattere di universalità per cui le conquiste erano applicabili a tutta la platea di lavoratori e lavoratrici  mentre lo sviluppo degli ultimi anni è andato in altra direzione”.

Da una parte si sono “erose” le tutele “storiche” per il mondo del lavoro italiano (es. non reintegrazione nel lavoro in caso di licenziamento senza giusta causa), dall’altro – sottolinea Candeloro – l’introduzione della normativa antidiscriminatoria con tutele “rafforzate” per particolari gruppi di lavoratori che si assumono potenzialmente discriminati sulla base dell’ideologia, dell’orientamento sessuale, dell’età, della disabilità e del genere, lungi dall’aver garantito una tutela rafforzata alle lavoratrici, ha posto un ostacolo in più al riconoscimento dei diritti sul lavoro, dovendo le lavoratrici stesse dimostrare che la violazione dei loro diritti è dipesa da un atteggiamento discriminatorio del datore o della datrice di lavoro.

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Urge la rivendicazione dell’universalità dei diritti per passare a una tutela seria, non solo sulla carta.

Enrica Rigo (docente di Filosofia del diritto a Roma Tre dove ha fondato e coordina la Clinica del Diritto dell’Immigrazione e della Cittadinanza, attivista del movimento femminista Non Una di Meno), ha parlato del “ruolo sempre più centrale nella politica e nel diritto, sia a livello globale che europeo della governo della mobilità umana.” Ha proposto una lettura critica del “ruolo che la distinzione tra produzione e riproduzione gioca nel governo delle migrazioni; nonché la rivendicazione della libertà di movimento come pratica radicale di messa in discussione di tale sistema.

Annick-Coupé, presidente di Attac France, ha descritto la situazione, difficile, dello “spettaccolare” aumento del lavoro femminile, agli inizi del Novecento, passato da 7 a 14 milioni a fronte di quello maschile cresciuto solo dai 13 ai 16 milioni. Altro grande e rapido sviluppo è nella scolarità e nell’accesso all’università e nel numero delle laureate.

Alla maggiore titolazione e alla maggiore presenza in ogni campo del lavoro però non corrispondono né le percentuali delle carriere e nemmeno quelle dei salari che rimangono inferiori a quelli degli uomini del 20%.

Le donne rappresentano la metà dei salariati e sono le più titolate, dovrebbero quindi avere gli stessi diritti degli uomini, ma non è così.

L’82% dei salari a tempo parziale appartiene alle donne; l’uguaglianza formale proclamata dalla legge deve diventare eguaglianza reale per tutte le donne, essendo chiaro che il posto delle donne nel mercato del lavoro è legato al posto che hanno, o piuttosto che non hanno, nella vita politica, nella famiglia, a causa delle violenze sessiste che continuano a subire.

Giovanna Vertova (ricercatrice di Economia politica presso l’Università di Bergamo dove insegna Economia delle grandi aree geografiche ed Istituzioni di Economia), ha parlato del “sistema economico esteso con due sotto-sistemi: quello di produzione che si basa sul lavoro salariato per la produzione di beni scambiati attraverso transazioni di mercato; quello di riproduzione della forza lavoro, che si basa sul lavoro domestico e di cura svolto gratuitamente all’interno della famiglia e/o da immigrate in rapporti più o meno formali.”

Nella relazione, ha reso esplicita la dimensione di genere delle tre dimensioni (lavoro salariato, lavoro domestico e di cura, politica fiscale).

Paradossi, passi all’indietro, attacchi ai diritti delle donne, feroci dibattiti ideologici, la lezione di Seattle per l’economia e i movimenti, nuove schiavitù, questi e altri i temi, tutti attualissimi e roventi, che hanno intersecato, con dibattiti, giornate impossibili a riassumersi ma di cui si può avere materiale rivolgendosi alle organizzatrici.

Due in ultimo le esperienze:

quella di Polixeni Papalesi, laureata in farmacia a Bologna, rientrata in Grecia dove ha sempre lavorato nella sua farmacia e attualmente è volontaria presso l’ambulatorio di Ellinikò che risponde a bisogni concreti delle donne in una situazione altrimenti difficilissima, individuale e nazionale, ricevendo solidarietà da movimenti di tutta Europa; quella di Skerdilajda Zanaj sul divario di genere in Albania.

Laureatasi in Italia, a Lecce, con dottorato in Economia presso l’Università cattolica di Lovanio in co-tutelle con quella di Siena, professora associata presso l’Università del Lusemburgo, Skerdilajda Zanaj è un caso di ”fuga di cervelli” dall’Albania e di nomadismo scolastico europeo. Nel descrivere la situazione delle donne nella sua terra d’origine, montagnosa al 70%, con villaggi piccoli e isolati, segnato dall’Impero ottomano, dal comunismo più rigido, oggi repubblica parlamentare, il primo al mondo a dichiararsi ateo (1967), paese povero che investe nell’industria pesante, Skerdilajda Zanaj ha parlato degli atteggiamenti sociali nei confronti delle donne che permangono sessisti anche in presenza di una veloce emancipazione tanto da rendere il “Paese più povero d’Europa e uno dei più isolati politicamente e geograficamente, quello con la partecipazione femminile al lavoro più alto dell’Italia e con un numero di studentesse iscritte nelle facoltà scientifiche più alto che la Francia e il Belgio messi insieme e con ben 43 docenti nell’Università di Tirana.

Tornando alle discriminazioni, ai tassi di femminicidio altissimi, al 30% delle retribuzioni salariali in meno, alle quasi impossibili carriere nonostante il predetto, ha sottolineato come le differenti norme culturali che riguardano i ruoli di genere emergono in risposta a specifiche situazioni storico-sociali e persistano anche quando queste cambino, trasmesse nelle generazioni. Ad esempio, studi documentano che “la diminuzione del reddito dopo la maternità sia maggiore per le madri la cui madre era rimasta a casa quando erano bambine, perché è più probabile che seguano quell’esempio e rimangano a loro volta a casa.”

In cartella stampa, l’articolo di Michela Cusano “Schiave mai. Il lavoro delle donne, tra dignità e sfruttamento” sul bracciantato agricolo femminile (https://www.funkytomato.it/schiave-mai-il-lavoro-delle -donne-tra-dignita-e-sfruttamento) in cui si chiede “chi possa tollerare che il 40%della forza lavoro in agricoltura, le donne, viva in condizioni di povertà e schiavitù” auspicando una presa di coscienza collettiva, “per il futuro nostro e delle nostre figlie”.

In cartella, anche un’intervista ad Isabelle Cllet a cura di Gwendaline Coipeault pubblicato su “Clara Magazine, n. 171, 1-2, 2019, in merito all’intelligenza artificiale e derive sessiste, dove alla domanda di quale sia il nesso fra le due cose la risposta è che si sollevano problemi: il primo legato agli stereotipi sui dati forniti al motore dell’intelligenza artificiale per produrre risultati; l’avatar, nel campo delle scienze o della finanza o della tecnica, sarà un uomo, in tutti gli altri una donna preferibilmente carina, esile, bianca. Altri problemi sorgono, molto complicati, in riferimento alle funzioni automatizzabili.”

Inoltre, l’intervento video di Cinzia Arruzza, docente di Filosofia alla New School for Social Research di N. Y., saggista femmista (es. Storia delle storie del femminismo, Alegre, 2017).

La studiosa ha discusso il concetto di riproduzione sociale, “chiave di lettura cruciale non solo per comprendere la natura e le dinamiche della nuova ondata femminista transnazionale, ma anche del nuovo protagonismo delle donne nei movimenti sociali e nelle lotte del mondo del lavoro degli ultimi anni.”