Sabato 13 febbraio si è svolto su YouTube.com/Anpi Provinciale di Roma un interessante dibattito su Il lavoro delle donne e dei minori nella Costituzione, partecipato da docenti e rappresentati ai massimi livelli dell’Anpi Nazionale e della sezione promuovente, di Palestrina; introdotto dalla sua presidente, Chiara Ponzo e coordinato dal vicepresidente, Martino Darelli.

Pubblichiamo stralci dell’intervento di Fiorenza Taricone (prof.ra ordinaria di storia delle dottrine politiche presso l’Università di Cassino e del Lazio Meridionale) su Il lavoro delle donne e dei minori nella Costituzione, uscito nella rubrica Donne Storia e Futuro di “UnoTre” (15.2.2021).

La Costituzione prende l’avvio dal fatidico articolo che ci definisce “una Repubblica democratica fondata sul lavoro”, affermazione non così comune nelle Costituzioni einesistente, per quanto riguarda l’Italia, nel precedente Statuto Albertino.

Il punto di partenza, per capire il tema del lavoro delle donne e dei minori, è l’ingresso di 21 donne nell’Assemblea Costituente: Adele Bei, Nadia Gallico Spano, Leonilde Iotti, Teresa Mattei, Rita Montagnana Togliatti, Teresa Noce, Elettra Pollastrini, Maria Maddalena Rossi, comuniste; Laura Bianchini, Elisabetta Conci, Filomena Delli Castelli, Maria De Unterrichter Jervolino, Maria Federici Agamben, Angela Gotelli, Angela Maria Cingolani Guidi, Angiola Minelli Molinari, Maria Nicotra Fiorini, Vittoria Titomanlio, democratiche cristiane; Bianca Bianchi e Lina Merlin socialiste; Ottavia Penna Buscemi, Fronte dell’Uomo Qualunque.

Rispetto agli articoli riguardanti il lavoro e alla modernizzazione nel dibattito, le madri costituenti si trovano in una posizione singolare per vari motivi: alcunesono insegnanti, altre operaie ma intere generazioni prima di loro hanno avuto con il lavoro un rapporto spinoso e controverso. In età liberale, prefascista, una ristretta élite di laureate aveva avuto accesso alle libere professioni solo con una legge del 1919; le maestre non avevano maiavutovita facile e percepivano un terzo di meno dello stipendio rispetto ai maestri; le contadine erano sussunte all’interno della famiglia dominata dalle figure maschili…non firmavanoi patti colonici e tutti i lavori infiniti svolti appartenevano ai compiti quotidiani, senza guadagni autonomi; le prime operaie, al lavoro fuori casa insieme a bambin*, considerate mezze forze pur lavorando lo stesso numero di ore degli uomini, ricevevano un terzo di meno della paga maschile e pur essendo senza tutele, come gli uomini, erano esposte a molestie e ricatti sessuali.

Il fascismo aveva avuto, nei confronti del lavoro femminile, un atteggiamento duplice: apprezzava l’élite colta delle professioniste anche perché numericamente irrilevante,ma considerava ottimale essere una casalingaprolificae lavoratrice gratuita; esaltava le cosiddette massaie rurali, in polemica con le cosiddette signorine di città, amanti del divertimento e non del matrimonio; dopo gli anni Trenta, adottò una legislazione di contenimento nei settori impiegatizi.

È evidente che le Costituenti avevano alle spalle una storia diversificata rispetto ai generima seppero assumereposizioni moderne anche rispetto al lavoro minorile che l’Italia liberale considerava un’appendice della “condizione femminile”per la strettissima connessionefra natura femminile e maternità.

La dizione “donne e minori” contiene già un interrogativo: la relatività e incertezza del dato anagrafico, sia in relazione alla famiglia che ai luoghi di lavoro. Che età hanno donne e minori? Fino agli anni più recenti, sostanzialmente, la gioventù rappresentava, storicamente, una sorta di nebulosa, come una foto d’epoca un po’ sfocata. La dizione “giovani”, o minori, ha racchiuso, fino a oltre la metà del Novecento, un mosaico complesso che solo negli anni ’70 e ’80, con il movimento femminista e le politiche di p. o., si è per così dire sdoppiato declinandosi nei due generi, femminile e maschile.

All’uscita dalla famiglia di tipo patriarcale, cioè fino alla riforma del diritto di famiglia (1975), i giovani (maschi) diventavano immediatamente adulti, sposi e futuri genitori, quasi che gli anni precedenti li avessero solo preparati alla vera esistenza. Né gli eventi bellici del ‘900 fanno molta chiarezza, anche se nell’immaginario collettivo la guerra è guerra di soldati, e quindi moria di giovani vite.

Il volontariato maschile nella prima guerra mondiale rese improvvisamente uomini coloro che le madri ritenevano ancora ben lontani dall’essere adulti.

Per quanto riguardava le donne, il non possedere una cittadinanza piena nonaiutato le giovani, future donne, a collocarsi nello scorrere delle generazioni. Esisteva un’età per sposarsi – precocissima per le spose bambine dei matrimoni combinati, costantemente più bassa di quella del marito – ma anche una per rimanere zitelle, corrispondente oggi alla piena giovinezza: 25/30 anni; un’età ancora più elastica, ma sempre precoce, per entrare nella prostituzione, meglio se illibate, il cui limite erano le malattie veneree e la possibilità di guadagno. Considerata l’età d’ingresso nel mercato della prostituzione, sarebbe più esatto parlaredi pedofilia.

Esisteva un’età per monacarsi, precoce anch’essa, almeno fino a quando la Chiesa pose un limite (scavalcabile con dispense); un’altra, non tracciabile all’anagrafe, per partorire, teoricamente senza un tempo, in pratica fino a quando il corpo ce la faceva o non moriva.

Per ragazzi e ragazze, di adolescenza neanche a parlarne fino al Novecento inoltrato; di autonomia dalle figure genitoriali, nemmeno, indipendentemente dalla maggiore età.

Le diverse età non erano logicamente correlate fra loro; ce n’era una per lavorare e in tal caso andavano bene anche donne e bambini/e di 8-10 anni, perfino di 4-5 nel caso delle setaiole nella fase del decollo economico post-unitario: età che la contemporaneità identificava con l’infanzia.

Per i maschi portatori di diritti di cittadinanza, l’accesso al voto era tra ventuno o venticinque anni, ma non c’era età per le donne, eterne minorenni, escluse come genere dal diritto di voto attivo e passivo.

La Costituente ereditava poco dal governo liberale prefascista sulla tutela dei minori;la legge n. 1733 nel 1873, vietava l’impiego di fanciulli in professioni “girovaghe”, che oggi collegheremmo anche allo sfruttamento sessuale. Professioni che comprendevano saltimbanchi, ciurmatori, ciarlatani, suonatori, cantanti ambulanti, saltatori di corda, indovini, spiegatori di sogni, espositori di animali, questuanti e simili (sia donne che uomini); per chi impiegava un/una minore, erano previsti da uno a tre mesi di carcere e una multa da 50 a 250 lire, con perdita della tutela e della patria potestà.

Nel 1886,l’Italiain pieno decollo economico varò la legge n. 3657 sul “lavoro dei fanciulli”, che, bontà loro, vietò l’impiego negli opifici industriali, nelle cave e nelle miniere, di fanciulli/e sotto i 9 anni e non sotto i dieci per i lavori sotterranei; non meno di 15 per i lavori insalubri.

Nel 1902, la svolta con la prima legge d’iniziativa socialista“sul lavoro delle donne e dei fanciulli”, detta legge Carcano dal ministro proponente, notevolmente rimodulata rispetto all’impianto originario.L’età minima si spostava dai 12ai 13 anni per il lavoro nelle cave, miniere e gallerie. Dovevano essere forniti di un libretto e di un certificato medico, con le vaccinazioni e la frequenza del corso elementare inferiore dei primi due anni. Paradossalmente,anche le prostitute, dai 18 anni in poi,erano provviste di un libretto, chiamatolibretto di lavoro (svolgendo nelle cosiddette “case chiuse” un “servizio” riconosciuto e regolamentato dallo Stato). Il lavoro sotterraneo rimane vietato ai ragazzi sotto i 15 anni e alle donne minorenni.

Superata l’età di 10 anni, il lavoro può durare fino a 8 ore; non oltre le 11 per fanciulle/i, e oltre le 12 per adulte di qualsiasi età, con riposi intermedi e un giorno settimanale di riposo.

L’ammendaper ogni persona impiegata in modo scorretto era di 50,00 lire e non erano superabili le5.000 lire. Del 1907 sono la legge sulle risaie (per le mondine) e il Testo unico di legge sul lavoro delle donne e dei fanciulli. Restavano prive di orario e di protezione sindacale le categorie del lavoro a domicilio e di quello agricolo. Del fascismo, che si appropriò della lunga esperienza delle associazioni femminili per la tutela della maternità, si ricorda l’Onmi; nessuna legge abolì il divieto di ricerca della paternità che bollava gli/le illegittim* e penalizzava anche la ricerca di un lavoro. Sarà il Parlamento repubblicano, nel 1955, ad abolire l’inserimento delle generalità in atti e documenti, cioè a omettere la paternità e la maternità dai documenti anagrafici, grazie sempre all’impegno di senatrici e deputate.

La Costituzione, nel suo farsi, impattò età anagrafiche e atteggiamenti mentali difficili da smantellare; fondamentale si rivelò il riconoscimento dei diritti della donna lavoratrice, non solo madre, e la sua tutela che automaticamente comportava quella di figli e figlie minori.

Della cosiddetta Commissione dei 75, che provvedeva alla redazione del testo della Carta da sottoporre all’esame dell’intera Assemblea, divisa in Sottocommissioni, fecero parte Nilde Iotti e Teresa Noce (comuniste), Maria Federici e Angela Gotelli (democristiane) e Lina Merlin (socialista).

Nella Terza Sottocommissione, presieduta da Meuccio Ruini (Partito della Democrazia del Lavoro), le onorevoli Maria Federici e Lina Merlin intervennero sul diritto al lavoroesul salario base, distinto dal salario che variavarispetto al carico familiare, all’aumento del costo della vita e così via.

Teresa Noce, nel rilevare la funzione sì naturale, ma anche sociale della maternità, fu del parere d’affermare questo nuovo concetto democratico e civilenella Costituzione, perciò propose che oltre al salario completo nel periodo precedente e posteriore al parto, ci fosse un assegno di gravidanza per tutte le lavoratrici, l’assistenza medica per tutte, asili nido, dopo scuola, colonie-vacanze.

Lo spirito delle Costituenti si riflette nella legge n. 860 del 1950 sulla Tutela fisica ed economica delle lavoratrici madri; nel 1951, con la conservazione del posto di lavoro alle lavoratrici madri; nel 1963, con la n. 7, Divieto di licenziamento delle lavoratrici a causa di matrimonio; nel 1967, con la n.977, Tutela del lavoro dei fanciulli e degli adolescenti in cui si nota uno spostamento anagrafico: per “fanciulli” s’intendono i/le minori di 15 anni e, per “adolescenti”, notazione prima sconosciuta, quelli/e d’età fra i 15 e i 18 anni. L’età minima è fissata a15 anni e purtroppo anche la specifica dei pesi che i due sessi possono “sostenere e trasportare” dà un’idea materiale delle loro fatiche. Infine, la legge del 1971, n. 1204 tutelale lavoratrici madri. Èdel 1991 la legge sui primi interventi in favore dei/delle minori,soggetti a rischio e coinvolti in attività criminose. Per loro, in questo caso, l’attività criminosa è un lavoro, così come la prostituzione. È attuale, in Europa, il dibattito sul riconoscimento delle prostitute come lavoratrici indipendenti, sex workers.

Nel 2011, la legge n. 112 istituisce l’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza.

A mio parere l’onda lunga delle Costituenti arriva fino al neo femminismo degli anni Settanta; intreccio visibile anche nella IV Conferenza mondiale delle donne di Pechino, 1995, che distingue i diritti delle bambine da quelli dei bambini, soprattutto rispetto alla tutela dei diritti riproduttivi e denuncia la violenza delle spose-bambine, il cosiddetto childmariage.