Le cronache del tempo raccontano: “Filippo Lippi che era frate, essendogli dalle monache di Santa Margherita, a Prato, data a fare la tavola dell’altar maggiore, mentre vi lavorava, gli venne un giorno veduta una figliuola di Francesco Buti, cittadino fiorentino, la quale o in serbanza o per monaca era quivi.  Fra Filippo, dato l’occhio alla Lucrezia, la quale aveva bellissima grazia ed aria; tanto operò con le monache, che ottenne di farne un ritratto, per metterlo in una figura di Nostra Donna per l’opera loro.  E con questa occasione innamoratosi maggiormente, fece poi tanto che sviò la Lucrezia dalle monache e la menò via il giorno che andava a veder mostrar la Cintola di Nostra Donna, onorata reliquia di quel castello. Di che le monache molto per tal caso furono svergognate e Francesco suo padre non fu mai più allegro e fece ogni opera per riaverla: ma ella non volle mai ritornare; anzi starsi con Filippo: il quale n’ebbe un figliuol maschio, che fu chiamato Filippo e fu poi, come il padre, molto eccellente e famoso pittore, Filippino Lippi”.

La danza di Salomè – Duomo di Prato

Se vogliamo dirla tutta, la realtà di questa storia supera di gran lunga qualunque fantasia!

Anzitutto Lucrezia Buti non era una pupilla o una novizia, ma una suora in piena regola quando nel 1456 se ne scappò con fra’ Filippo, cappellano di Santa Margherita a Prato.

L’esposizione annuale della Sacra Cintola, durante la quale le suore potevano uscire dal convento e partecipare alle celebrazioni, attirava una folla di persone, e nella confusione generale il cappellano e la suora fuggirono nella vicina casa di fra’ Filippo.

La madre superiora e le autorità ecclesiastiche cercarono di evitare lo scandalo, ma quando la sorella di Lucrezia, Spinetta Buti e poco dopo tre altre suore fuggirono dal convento, dovettero necessariamente correre ai ripari: appellarsi alla giustizia. Ma, comunque, per riportare all’”ovile” le cinque fuggitive, ci vollero ben due anni.  

Tutte quante, compresa Lucrezia che nel frattempo aveva dato alla luce il figlio, ripeterono l’anno di noviziato; dopodiché, inginocchiate dinanzi all’altar maggiore con la candela in mano, furono rivestite un’altra volta dell’abito e del velo monacale.

La cerimonia si svolse nel dicembre I459 alla presenza del vicario di Prato, del vescovo di Pistoia e della badessa del convento.

Le penitenti fecero solenne promessa di comportarsi per bene, di cambiare condotta, di mantenersi caste e di obbedire alle regole e alle prescrizioni del convento.

Oh, un bel sospiro di sollievo. Tutto sistemato!

Macché! Il loro ravvedimento fu di breve durata. In meno d’un anno tre delle pecorelle smarrite, cioè le suore rimonacate, ripresero i rapporti con i loro ex amanti e Lucrezia e Spinetta riuscirono a fuggire una seconda volta. 

Non sappiamo con esattezza quando avvenne, ma nel 1461 risulta che si erano installate entrambe in casa di fra’ Filippo.

Questa volta Cosimo de’ Medici venne in aiuto agli innamorati. Cos’altro poteva fare? O la prigione a vita o la libertà a vita. Cosimo scelse quest’ultima soluzione. Grazie alla sua intercessione il pontefice sciolse il frate dai voti.

Contemporaneamente, però, Filippo perse tutte le sue cariche ecclesiastiche e le relative prebende.

Come tanti altri orfani, Filippo e Lucrezia, erano rimasti giovanissimi privi dei genitori e così furono dai parenti destinati al chiostro senza potersi opporre Erano troppo piccoli per avere voce in capitolo e anche se fossero stati più grandicelli, era comunque la famiglia a decidere il loro destino.

L’uso di assegnare ai conventi dei ragazzi che più tardi avrebbero scoperto di non avere la minima vocazione per la vita religiosa, produceva inevitabilmente una quantità di frati e di suore poco portati alla preghiera e alla clausura, ma, al contrario, essi erano ancora più fortemente desiderosi di assaporare tutti i piaceri che il mondo poteva offrire loro..

Il Savonarola, tuonando contro gli ecclesiastici fuorviati, esclamava in un sermone del 1493: “Tu vedi là un sacerdote pubblicamente giocare, là un altro frequentare le taverne, chi avere  la concubina e chi abbandonarsi a mille peccati”. E denunciava le monache che “stavano tutto il dì alle grate a cicalare con giovani secolari”.

La romantica storia d’amore di fra’ Filippo deve la sua notorietà, primo al fatto che si trattava d’uno dei grandi maestri del secondo Rinascimento, secondo perché era un frate, terzo perché era un pittore d’immagini sacre.

Com’era possibile che un uomo “immorale” potesse eseguire delle opere religiose e passare la vita a dipingerle? Come mai papi e cardinali, principi e sovrani non trovavano sconveniente che a dei notori libertini fossero commissionate le più importanti immagini sacre, e nessuno si meravigliava che costoro assolvessero il compito con perizia e passione?

Pochi nel Quattrocento e ai primi del Cinquecento vedevano una contraddizione fra la condotta scostumata e le opere religiose di un artista. Fra’ Filippo Lippi era in buona e numerosa compagnia.  La maggior parte dei pittori trascorreva, infatti, un’esistenza libera, decisamente poco incline alle regole. Molti erano irrequieti, bizzosi, licenziosi, attaccabrighe… Ma questo non impediva loro di disegnare splendide madonne.