A leggere un testo – sottoscritto da nove donne e tre uomini – intitolato “Un invito per il Laboratorio che si occuperà di educazione/ scuola/ formazione”, recentemente pubblicato nel blog di Paestum, pare sia proprio così.Pare che il “pensiero della differenza” sia trapassato a vita migliore e non nascondo che nel leggere quanto di seguito verrà riportato, ho faticato a credere ai miei occhi non tanto per la “notizia” in sé che, a ben vedere, non desta grande sorpresa, ma per il canale d’informazione scelto per darne diffusione:

“{Scegliamo e invitiamo a utilizzare un linguaggio diverso, più semplice, smettendo le forme “differenza sessuale” e “differenza di genere”, usando al loro posto “uomini e donne” per rimanere più aderenti a ciò che sta capitando, a chi agisce e lo fa capitare, coltivando maggiore fiducia nella nostra capacità di dare lingua all’esperienza, di abbattere steccati e di condividere sempre più ciò che ci sta a cuore}”.

Ne segue – quale risarcimento per l’abbandono della formula “differenza sessuale” di cui, a partire da Irigary l’intera storia del femminismo si è abbondantemente nutrita – la promessa di realizzazione di un desiderio “in grande”:

“{Le iniziative centrate sulla discriminazione femminile e sugli stereotipi rischiano di trattenerci nel passato e distoglierci dal riconoscere e agire il cambiamento, dal desiderare in grande}”.

Si passa così dal rifiuto di un desiderio troppo modesto per elevarsi ad altezze non prive di sfumature, a dire il vero, un po’ megalomaniche, a disegnare uno scenario abitato dalla presenza di nuove “soggettività in fermento” mescolate e confuse in un’ unica ricetta politica e programmatica:

“{Ci chiediamo: quali soggetti con quali esperienze sono nel frattempo entrati nella scena? Quali sono le soggettività in fermento? Non solo le/gli insegnanti, ma anche bambine/bambini, madri e padri, gruppi di uomini, ragazze e ragazzi, territori e comunità…}”.

Siamo di fronte, a quanto pare, a una rivoluzione epocale – la scomparsa della parola Differenza” – che ci viene annunciata come se di un evento qualunque si trattasse, nello spazio risicato delle ultime cinque righe del post citato.

Dove sta andando il femminismo italiano del “pensiero della differenza”?
Siamo di fronte a una svolta “rivoluzionaria” o a un dichiarato fallimento della rivoluzione femminista ispirata a tale pensiero?
Siamo di fronte all’abbandono di quella “conversione” delle donne “al femminile” teorizzata da Irigaray e a una loro stabile e definitiva conversione al maschile?

Eppure a guardar bene nel fondo del barile in cui si sono depositati – nel tempo e da tempo – indizi di ambiguità, controsensi, imbarazzi taciuti o semidetti, si vede bene che la morte annunciata della “differenza sessuale” – una categoria fondante del femminismo italiano indegna, oggi, di essere persino nominata – non giunge affatto imprevista.

Di positivo c’è, tuttavia, in questa notizia data quasi in sordina in un contesto imprevisto, il riconoscimento di una verità: la consapevolezza e la conseguente presa d’atto di una “Differenza” (dal maschile) che non c’è, che non c’è mai stata se non nella forma binaria, fuorviante e distorta di un’opposizione duale, di un’antitesi uomo-donna per troppo tempo confusa – con buona pace di Lonzi – con la Differenza:

{La donna non è in rapporto dialettico col mondo maschile. Le esigenze che essa viene chiarendo non implicano un’antitesi, ma un muoversi su un altro piano. Questo è il punto su cui più difficilmente saremo capite ma è necessario insisterv}i. (Lonzi, {Sputiamo su Hegel}).

Del resto che un certo femminismo abbia svoltato “verso un’idea di politica costruita in analogia col pensiero maschile”, come una sorta di “rivalsa nel simbolico” – l’“ordine simbolico della madre”, le “genealogie femminili”, la priorità della lingua materna, ecc.” – non è una novità.

Nella Rivista “Lapis”, infatti, in “Percorsi della riflessione femminile” di Lea Melandri “le posizioni assunte dalla Libreria delle donne di Milano a partire dagli anni ’80, note come “il pensiero della differenza sessuale”, vengono riconosciute e criticate. Matura già in quegli anni, infatti, “la tentazione di fondare un soggetto forte”, una “tradizione di donne” che, come tale, ha bisogno di un’“autorità”, di un linguaggio e di un ordine simbolico su cui fondarsi ed è attraverso “la costruzione identitaria di una “differenza femminile” con cui affrontare la vita pubblica, che sparisce l’attenzione al corpo, al sé, al vissuto personale…”.

Inutile dire che sull’Evento della morte annunciata del pensiero della Differenza sarà necessario e doveroso aprire nel femminismo italiano un dibattito all’altezza di tale Evento e poiché la notizia di questa morte è stata data all’interno del blog di Paestum è proprio all’incontro di Paestum 2013 che un tema di questa portata dovrebbe essere affrontato.

Ma una domanda, intanto, una fra le tante, la possiamo fare: Che ne è, che ne sarà della teoria dell’ordine simbolico della madre, nato in opposizione all’ordine paterno, una volta dichiarata “smessa” la parola “Differenza”, sostituita da “uomini e donne”?