Un pericoloso risvolto della decisione svizzera di vietare il burqa nei luoghi pubblici: l’Alto Commissariato Onu ha condannato il referendum e la conseguente decisione presa dal paese.

“Il velo integrale è strettamente legato all’ideologia islamista radicale e contrario al nostro modello di vita”. Sono le parole del manifesto del Comitato di Egerkingen, piccolo comune del Canton Soletta, da cui è partita, per iniziativa di esponenti legati all’Udc (partito sovranista svizzero maggioritario al Parlamento Federale) l’offensiva contro burqa e niqab che,con un referendum svoltosi il 7 marzo scorso, ha convinto, pur se di poco, il paese.

Il 51,2% ha infatti votato sì per proibire la presenza, nei luoghi pubblici, dei simboli islamici che coprono il viso, con 20 cantoni a favore sul totale di 26 facenti parte della confederazione.

Il Ticino, che nel 2013 aveva fatto da apripista accogliendo un’analoga normativa cantonale, ha approvato la richiesta referendaria con il 60,5% dei voti. Sul fronte dei contrari si sono schierati i Grigioni (49,6% di sì).

La Svizzera non è l’unico paese che ha approvato normative analoghe: anche Francia, Belgio, Austria, Bulgaria e Danimarca hanno, negli anni scorsi, vietato l’uso di burqa e niqab nello spazio pubblico, in quanto considerati simboli dell’islam politico e della sua volontà di proselitismo, nonché espressione di un’inaccettabile sottomissione delle donne.

Ovviamente la vittoria dei sì al referendum e la conseguente proposta di introdurre nella Costituzione il divieto di copertura del volto fanno discutere.

Per vincere la competizione il Comitato di Egerkingen ha proposto il quesito referendario “contro la dissimulazione del volto” allargando la prospettiva in modo che il divieto includesse anche gli hooligans e i manifestanti di piazza violenti che si nascondono dietro sciarpe o passamontagna per non farsi individuare dalle telecamere della polizia.

Il dato interessante è che, nonostante la proposta sia partita da una formazione di destra, e il focus dei dissidi tra destra e sinistra fosse sul burka, la vittoria referendaria la si deve anche al voto favorevole di una grande parte della sinistra, e in particolare delle donne e delle femministe.

Queste ultime, finalmente, hanno avuto il coraggio di sfidare il veto che grava sulla critica all’Islam, che a sinistra viene bollata come razzista e ‘islamofoba’, dimenticando che l’islam è un pensiero e come tale passibile di critica tanto quanto altri posizionamenti.

Marlyse Dormond, storica esponente socialista di Losanna, in un dibattito televisivo ha dichiarato che “portare burqa e niqab è come indossare una prigione ambulante”.

Occorre ricordare che posizioni molte nette contro il burka e in niqab non sono esclusivo appannaggio del mondo europeo: contro il velo integrale si sono espressi sia la moschea al-Azhar al Cairo, importante centro di diffusione del credo islamico di scuola sunnita, sia l’imam di Berna Mustafa Memeti, secondo cui il burqa non ha nulla a che vedere con la religione islamica. Per Memeti, al contrario, il referendum sostiene l’emancipazione delle donne nell’islam. Da registrare che l’uso del burqa è vietato, a diverso titolo, anche in alcuni paesi musulmani. Nel 2010 il primo ministro tunisino Youssef Chahed ha vietato l’uso di niqab e burqa negli uffici pubblici del paese, mentre nel 2008 il governo di Rabat ha bandito la produzione e la vendita di niqab e burqa su tutto il territorio del Marocco.

“La condanna dell’Onu suona paradossale- ha commentato la giornalista Giuliana Sgrena, autrice tra gli altri dei libri Dio odia le donne e La schiavitù del velo – non solo perché, contrariamente alle motivazioni portate dal comitato dell’Onu in niqab o il burqa non sono previste dal Corano ma anche e soprattutto perché è una offesa e discriminazione di tutte le donne che nei paesi musulmani si battono – anche rischiando il carcere, vedi Iran, Arabia Saudita – per liberarsi dall’obbligo del velo. Peraltro non sono mai stati condannati i paesi musulmani che hanno posto divieti sull’uso del velo integrale. E’ vero che in Svizzera l’iniziativa è stata promossa dalla destra, ma questo non deve far perdere di vista quali sono i diritti delle donne e il modo di affermarli, anche opponendosi al velo”.