Ho un forte ricordo di Ileana Montini nel Comitato centrale del Movimento femminile della Dc degli anni 60 e sono lieta, la ringrazio, di aver letto e voluto commentare la mia ultima fatica, (la prima a farlo della galassia femminista se si eccettuano le care amiche della Società delle storiche che hanno voluto animare più dibattiti), una memoria in cui pubblico e privato si intrecciano e in cui ho voluto trasmettere la parte meno visibile della storia della Repubblica. Sono convinta che di fronte alle nuove generazioni fra tante urgenze di pedagogia civile, anche il confronto delle memorie è un passaggio necessario; e voglio ricordare, oltre le già citate da Ileana, i tre bellissimi volumi di {{Marisa Cinciari Rodano}}, quello, che mi è caro di {{Nadia Gallico Spano}}, e il primo fra tutti, il “{Rivoluzionaria di professione}” di {{Teresa Noce}}.

E’ anche per questo che vorrei chiarire alcuni passaggi della [recensione->https://www.womenews.net/spip3/spip.php?article9741] di Ileana.

{{Il primo}}, in cui si intrecciano per me ricordi personali ma anche uno specifico lavoro di storica , su documenti e episodi, è relativo al giudizio riportato da {{Lidia Menapace}} sulla prima generazione delle dirigenti democristiane “che avrebbero accettato con assoluta convinzione la funzione marginale e sussidiaria che la Chiesa assegnava alla donna” . Anche se la parola emancipazione, con le sue ambiguità, non faceva parte del nostro linguaggio, questo non mi è mai parso assolutamente vero. Già nella Costituente la linea delle costituenti democristiane fu ben altra di quella sostenuta dalla Chiesa ufficiale alla Settimana sociale di Firenze, rigidissima sulla subordinazione femminile in famiglia, e contribuì invece all’affermazione della parità dei coniugi, al primato dei diritti del bambino, interpretando esplicitamente in un intervento della {{Federici}} lo stesso aggettivo “essenziale” dell’impegno familiare della donna nel senso che ciò che doveva essere tutelato era ciò che vi era oggettivamente di essenziale, di fatto fondando la legittimità costituzionale della prima legge sulle lavoratrici madri( quella che potremmo chiamare la prima discriminazione positiva).

Ma anche immediatamente dopo, nel 1948,{{ Angela Gotelli}}, certo non meno “laica” della {{Jervolino}}, apriva la sua relazione al terzo convegno, dedicato alla nuova legislazione da introdurre, con la frase scioccante: “Cominciamo dall’adulterio”, quella per cui fu accusata di voler mandare metà maschi italiani in galera, pur non avendo affatto affrontato la questione di “quale parità”; due anni dopo toccava alla straordinaria, anticonformista, coltissima seguace del suo conterraneo Rosmini, {{Stefania Rossi }} , di disegnare il tema del diritto al lavoro delle donne, centrando le grandi questione della parità, della formazione, la necessità di superare la distinzione fra lavori femminili . e maschili e criticando la propensione suggerita alle donne per i primi.

Certo il mondo era ancora quello che era e prudenze e gradualità si imponevano alle democristiane: ma basterebbe ricordare la determinazione e il coraggio nel portare avanti contro un’opinione maschile fredda e perplessa, la {{Legge Merlin}}, prima in Parlamento e poi nel sostegno decisivo, organizzato col massimo di riservatezza e rispetto, spiritualmente paritario, alla riqualificazione di migliaia di prostitute, gestito insieme da cattoliche e laiche, per ricordare quella generazione di donne, cresciuta durante il fascismo e in una Chiesa preconciliare, come un modello di testimonianza alta del senso stesso della politica.

{{La seconda precisazione}} è in se stessa più banale; certo che ricordo bene la data, l’immediato dopo elezioni del 68, in cui{{ Lidia Menapace}} ci lasciò con un suo lungo articolo su “Settegiorni”. La data che ho richiamato si riferiva ad altro; alla lunga, per certi versi incredibile, trattativa fra me e {{Franca Falcucci}} sul problema di rispondere e parlare con Lidia, che durò circa un anno sciogliendosi a fatica solo con un mio articolo che non faceva, salvo nel richiamo alle sue scelte nel titolo, nessun riferimento diretto a lei.

{{La terza}} è quella che mi riguarda più direttamente e mi ha convinto di più ad accogliere la proposta di Giovanna Romualdi ad intervenire, ed è quella di {{estraneità alla vicenda neo femminista}}. La stessa estraneità generazionale, che è un fatto incontestabile, non poteva essere totale: ero pur stata fra le prime , fra gli anni 50 e 60 ad affrontare, scovando nelle biblioteche italiane testi della fine del secolo e poi studiando le carte{{ Coari}}, a misurarmi con la storia del movimento italiano di fine secolo, dei suoi intrecci internazionali, della nascita fino ad allora ignorata del femminismo cattolico. Posso essere definita {{esterna non estranea}}; esterna ma con molte varianti date le variabilità stesse del movimento, le occasioni di relazione o di vicinanza, e i suoi risvolti internazionali a partire dalla nuova teologia femminista ma non solo, fino all’esperienza per me decisiva all’ONU di Città del Messico.

Ileana non è certo tenuta a conoscere la mia bibliografia, anche se può consultarla nel testo che ha recensito.
Ma vorrei ricordare almeno tre cose, in particolare sul tema della differenza. Nella introduzione al mio primo libro (“{Le donne oggi}” 1958) richiamo esplicitamente l’esperienza dell’uguaglianza, l’ esperienza della diversità, come il contenuto vissuto della esperienza femminile come la sfida cui avremmo dovuto rispondere ma più con gli strumenti della storia che con quelli della scienza o della filosofia.

In “ {Questione femminile e femminismo}” del 1979, teorizzavo “il dovere di ricominciare da capo” e indicavo, sintetizzo il mio testo, così la sostanza di ciò che stavamo riscoprendo, come cosa anche nostra, nella esplosione delle donne:
_ 1) l’identificazione della {{questione femminile come questione centrale}}, un peccato originale permanente della storia della civiltà, non una somma di casuali inadempienze, di dati empirici;
_ 2) {{ l’emergenza del problema sessuale}}, della liberazione della sessualità, come questione essenziale a un approccio critico globale alla questione della condizione femminile;
_ 3){{ la concezione della “liberazione”}} come qualcosa di più della mera modificazione strutturale, col primato della presa di coscienza, della rivoluzione interiore sulla rivoluzione esterna.

Non mi sembra davvero una dichiarazione di estraneità: non lo era anche perché la frequentazione della nuova letteratura italiana e internazionale è stata per me intensa in quegli anni, a partire dalla teologia femminista internazionale , alle tante teoriche pure citate nel volume. {{ Il problema della “ differenza” e del genere}} e il senso che le si dà è stato tutt’altro che ignorato o estraneo alla mia riflessione politica e storica, con in più una particolare, professionale attenzione alla pedagogia di genere, quella femminile certo, ma anche quella maschile senza la quale la stessa riflessione nuova delle donne su di sé rischia di produrre nuove contraddizioni e nuovi conflitti.

Certo mi sono riconosciuta di più nelle cose di{{ Claudia Mancina}} o {{Silvia Vegetti Finzi}} , della {{Badinter }} o di {{Gilligan}}, di {{Chiara Saraceno}} e {{Picccone Stella}}, di {{Balbo}} e di {{Beccalli}}. Ma non possono essere messe genericamente insieme con la {{Libreria delle donne}}, da cui mi sento lontanissima, con le pur stimolanti tesi della {{Cavarero}}, e le proposte di classi solo femminili, l’esaltazione del maternage gerarchico, l’antiistituzionalismo programmatico.

Il fatto è che il mio approccio al tema della differenza non poteva non essere segnato dalla mia {{esperienza di cattolica}}. Bisogna pur ricordare che c’era una sostanziale originaria parentela di significati fra la parola diversità e la parola differenza: e la prima aveva ispirato la gerarchia funzionale dei sessi già attraverso Aristotele e poi Tommaso a tutta la realtà ecclesiale, ma aveva anche segnato gli sforzi per affermare un primato spirituale femminile in una sorta di rovesciamento della disparità, ma ancorandolo all’invisibilità, al silenzio, al velo alla rinuncia, nella spiritualità di {{Geltrude von Le Fort}}, con cui mi ero misurata molto criticamente negli anni 50.

Di fatto chi volesse provare a trovare le mie cose disperse fra libri saggi, relazioni, articoli, troverebbe sinteticamente queste tesi. {{L’Uno viene prima del due }} e si può parlare di differenza soltanto se si parte dall’idea di uguaglianza, dalla comune umanità dei due sessi, ognuno e ognuna segnato da un’eredità duale. Il terreno su cui si può investigare cosa la differenza sia è, solo per questa rapida riflessione iniziale, quello della filosofia; è assai più quello della storia perché è dentro la storia concreta che la “differenza” è andata oltre le sue radici fisiologiche legate alla riproduzione e ha condizionato la struttura sociale e le psicologie interiori, i rapporti di forza e le eredità culturali. E la storia concreta ci consegna, in forme tuttavia diverse, tutte da ridefinire e indagare nel variare dei tempi, in una logica di storia del lungo periodo, ( dalla nascita maschilista della democrazia in Grecia all’arretramento ecclesiale nei primi secoli del cristianesimo sul ruolo femminile, dai cahiers di doleances della rivoluzione francese, all’assalto femminile ai nuovi lavori agli inizi del Novecento, dalla lettura proposta inutilmente da Betty Friedan al movimento femminista, sulle responsabilità della vittoria delle destre mondiali nella svolta degli anni 80 fino alla data storica del nostro 13 febbraio 2011) l’estraneità della donna alla grande storia, la concentrazione sul quotidiano, la forza della relazione e della cura, l’uso delle risorse, in sostanza la difficile ricerca e costruzione di sé, il suo contributo all’umanizzazione, in un contesto sempre e ancora condizionato e obbligato.

La storia dunque mi ha condotto entro{{ le logiche storiche dell’articolarsi della differenza}}. Anche qui è stata determinante la ricerca femminista e l’emergere dei {women studies}. Della storia di genere parlo la prima volta nel 1978 nell’introduzione a una ricerca collettiva bolognese voluta da {{Gina Borellini}} in cui trattavo delle donne fra 1945 e 1948, ma già allora il mio impianto era più {{Nathalie Zemon Davies }} che {{Gianna Pomata}}. Ma ci tornerò molte altre volte; fra l’altro nei due volumi di “{Che genere di politica}“, nella ricostruzione dell’asimmetria di genere della secolarizzazione in “{Vissuto religioso e secolarizzazione: le donne nella rivoluzione più lunga}”.

Anch’io sono stata un po’ lunga: ma se si scrivono le proprie memorie poi si prende l’abitudine di parlare troppo di sé.