Marco Severini, Il circolo di Anna. Donne che precorrono i tempi, Fermo, Zefiro Editrice, 2019, pp. 157.

Chi erano le donne del circolo di Anna? Quelle che, come ricorda Marco Severini nella Premessa, sono state capaci di anticipare i tempi, oltre alla capostipite, Anna Maria Mozzoni. Donne che hanno fatto squadra, esigenza di cui si parla molto in questi tempi di rendiconto per una democrazia che nell’orizzonte paritario, è più formale che sostanziale. L’arco temporale di queste protagoniste e delle loro vicende è, necessariamente direi, vasto ed eterogeneo, perché le donne che rivendicavano la libertà personale e i diritti hanno attraversato i secoli. Apre il “circolo” Margherita Sparapani, vissuta fra Settecento e Ottocento; Rosa Califronia, autrice di una Breve difesa dei diritti delle donne, pubblicata alla fine del XVIII secolo,la definisce esperta di musica e disegno, poliglotta, e preparata anche nelle discipline scientifiche. Sposata, caso non infrequente, a un uomo travolto dai debiti e dichiarato inabile, si ritrova giovane erede di un cospicuo patrimonio; a Roma il principesco Palazzo Gentili diventa uno dei centri della mondanità capitolina. La sua esistenza è costellata di viaggi e come scrive l’Autore “la scelta odeporica e la relativa narrazione aprono alla donna spazi inediti di libertà, d’indipendenza e di superamento dell’abituale dimensione domestica” (p. 13). Il diario del viaggio in Italia rivela acutezza di osservazione, spirito aperto e cosmopolita e assoluta libertà di giudizio.

La seconda è una figura in un certo senso antitetica alla prima, perché dopo aver superato la soglia dei sessant’anni diventa una custode fedele della memoria del marito, Lucien Bonaparte, in gioventù legato al patriota Pasquale Paoli e poi sostenitore di Robespierre; evidentemente un contro altare del marito di Margherita Sparapani. “Sola e senza alcun aiuto da parte delle personalità transalpine cui pure si è rivolta, Alexandrine intraprende un lungo lavoro di riabilitazione della figura del consorte che, sulla scorta anche di documenti personali non utilizzati da Thiers, dà luogo a una pubblicazione, Appello alla giustizia dei contemporanei del defunto Luciano Bonaparte, in refutazione delle asserzioni del sig. Thiers nella sua Storia del Consolato e dell’Impero, 1845”. Un giallo circonda la sua scomparsa avvenuta all’età di 77 anni, nella villa italiana di Senigallia che i coniugi avevano acquistato: un copioso carteggio, contenente probabilmente la prova della dubbia paternità di Napoleone III, nato dal rapporto fra Napoleone I ed Ortensia Beauharnais, che aveva poi sposato Luigi, l’altro fratello dell’Imperatore. Il carteggio, depositato presso il notaio, viene recuperato, portato in Francia e consegnato a Napoleone III, ma della documentazione purtroppo si sono perse le tracce.

Fra le vicende citate quelle della princesse Cristina di Belgiojoso, figura scampata all’oblio quasi totale che ha circondato tante donne del Risorgimento, è una delle più note. Difficile del resto ignorarne la statura, non solo patriottica, ma anche politica e culturale. Cristina, nonostante le convinzioni liberali e la fiducia nella monarchia per l’unità italiana, contribuisce economicamente alle prime imprese mazziniane in Savoia. In seguito nei salotti parigini, aderisce alle idee sansimoniane e a quelle del socialismo utopista in particolare di Victor Considérant e Fourier; tentò poi di realizzare, su questa scia, dopo il 1840, nei suoi possedimenti lombardi esperimenti riformisti, migliorando le condizioni di vita dei contadini e delle donne in particolare. Il 1848 la vede fra le protagoniste da nord a sud; dopo la sconfitta della Repubblica romana, s’imbarca da Civitavecchia con la figlia di cui non rivelò mai la paternità, e una governante, per l’Oriente. I Souvenirs dans l’exil, 1850, sono il frutto letterario, come scrive M. Severini, “con cui affronta un genere tradizionalmente maschile come il diario di viaggio” (p.33). In Oriente nuovamente mette in atto esperimenti di una tenuta agricola riformista. Ma all’attivismo politico Cristina aveva sempre unito lo studio e la scrittura; articoli su giornali, di cui uno da lei stessa fondato, e libri come la prima traduzione in francese della Scienza Nuova di Vico, nel 1844, e due anni prima l’Essai sur la formation du dogme catholique. Negli ultimi anni, opere di carattere socio-politico come Osservazioni sullo stato attuale dell’Italia e sul suo avvenire (1868), una sorta di dizionario della politica, Sulla moderna politica internazionale e un saggio profetico su Nuova Antologia, dal titolo Della presente condizione delle donne e del loro avvenire(1866).

Alla Repubblica romana e alle donne che hanno combattuto per l’unità, l’Autore dedica molta attenzione narrando vicende e situazioni non proprio a conoscenza dei più. Si snoda quindi il racconto privato e insieme politico dell’ex triumviro della Repubblica romana, Carlo Armellini, e della moglie Faustina Bracci, pittrice e miniaturista. Mentre il patriota s’imbarca diretto in Belgio con il figlio e la nuora, la moglie resta a Roma, affrontando la dura reazione pontificia e rileggendo via via il loro carteggio. Nel 1853 riescono a incontrarsi di nuovo a Torino, per un mese: lui ha ormai 77 anni, lei, 68. Pochi anni dopo, Faustina, che Severini definisce la bussola della famiglia, muore; nel 1857, Carlo la ricorda così ai figli: “Sogno perpetuo delle mie notti, aspirazione continua di un’assenza forzata di là dei mari e dei monti; era scritto di non più rivederci, e che tutte le illusioni di ulteriori consolazioni dovevano fra poco dileguarsi, come un vapore e un’ombra” (p.43). Il giallo delle carte Armellini ha trovato una soluzione non moltissimi anni fa. Un libraio romano ricorda a un giovane ricercatore di aver venduto l’archivio del triumviro all’Archivio di Stato di Roma; ricevuto il permesso, il ricercatore ritrova nelle mansarde le carte Armellini che contengono nei faldoni anche le lettere di Faustina Bracci.

Alle drammatiche vicende della Repubblica Romana, cui fra i tanti meriti spetta anche quello di aver prodotto una Costituzione molto in avanti rispetto ai tempi, tranne un suffragio universale ma solo maschile, in parte premonitrice di quella attuale, appartiene di diritto Colomba Antonietti, sposata giovanissima per scelta all’ufficiale Porzi. Il matrimonio cui si opponevano le famiglie, viene celebrato nel 1846, in stile manzoniano, come scrive l’Autore. A Roma, dove vanno poi a vivere, nel quartiere Trastevere, maturano convinzioni sempre più democratiche; Colomba combatte vestita da uomo con la divisa militare per difendere la Repubblica romana, e collabora anche con il servizio di soccorso ai feriti nelle ambulanze, sorta di ospedale da campo, coordinato da Cristina di Belgiojoso. Un volontario olandese narra la sua morte colpita da una palla di cannone; nel 1939, sulla scorta del diario del padre barnabita Carlo Giuseppe Vercellone le spoglie di Colomba Antonietti vengono individuate nella chiesa di san Carlo ai Catinari a Roma e poi trasportate nell’ossario del Gianicolo. Nel libro di Marco Severini si rintracciano anche notizie preziose di donne che nella prima Italia unitaria hanno cercato di farsi ascoltare, dal 1848 fino ai plebisciti: scrivono, fanno offerte patriottiche, costituiscono seggi separati che non hanno alcun valore legale, stazionano nelle assemblee elettorali o accompagnano mariti al voto, benché i codici morali dell’epoca ritengano tale presenza femminile scandalosa e perturbante (p.54). Due di loro vengono ammesse al voto: la prima, Marianna De Crescenzo, detta la Sangiovannara, perché vive nel quartiere dei pescatori di San Giovanni a Teduccio. Marianna gira armata, accoglie Giuseppe Garibaldi al suo ingresso; insomma un’eroina popolare cui viene concesso eccezionalmente per meriti patriottici, in deroga a un suffragio esclusivamente maschile, di votare nell’urna; l’altra donna è Maria Alinda Bonacci Brunamonti, nata a Perugia; il padre era un docente aveva curato personalmente l’istruzione della figlia. Nell’autunno del 1860 la poetessa diciannovenne diventa protagonista del voto; Maria Alinda si presenta a votare per sua scelta, grazie all’autorizzazione del presidente del seggio. La tradizione popolare non confermata sul piano documentario racconta che il suo ingresso nella cabina elettorale sia stato facilitato dagli abiti maschili. Nel 1870 giovani donne di età inferiore ai 21 anni, residenti all’estero quindi soggetti esclusi dal diritto di voto vengono più o meno legalmente incluse nei verbali finali. Il cuore delle pagine del libro è dedicato alla figura di Anna Maria Mozzoni, anch’essa sfuggita in parte alle maglie della rimozione storica. Nata in una famiglia lombarda nel 1837, colta e benestante, Anna Maria legge e scrive molto; fin da giovane la sua formazione illuminista s’intreccia con forti influenze dell’utopismo socialista francese e del pensiero progressista di Giuseppe Mazzini, Cesare Beccaria, e Salvatore Morelli. Marco Severini ricorda il nucleo fondamentale delle sue battaglie condotte attraverso articoli, libri, petizioni, partecipazione a convegni in Italia e in Francia, comizi pubblici. “In questo come su altri temi, scrive l’autore, Annamaria rivela una superba capacità di fare squadra, di creare un circolo di donne tenaci, acculturate, decise a rivendicare i diritti femminili contro le ottuse, intransigenti chiusure della società italiana del tempo”(p.63). Di lei, viene ricordata anche la polemica con la socialista Anna Kuliscioff, riguardante la legge sul lavoro delle donne e dei fanciulli e in senso più lato, la diffidenza verso la tutela che poteva sospingerla di nuovo in ambienti casalinghi, lontani dalla consapevolezza dei diritti. Come per Cristina di Belgioioso l’Autore ricorda una richiesta toponomastica fatta nel 1987 da Arturo Colombo che reclamava una via per la Mozzoni. Solo sette anni dopo, nel 1994, le viene intitolata una via in un nuovo quartiere milanese che incrocia l’arteria intitolata alla Kuliscioff.

Nel capitolo intitolato L’intuizione di Rosa, il personaggio di cui si parla è la sarta socialista, femminista e pacifista, Rosa Genoni, che ha svolto un ruolo molto singolare nella storia del Made in Italy e quindi dell’imprenditoria. Intendeva fare della moda milanese un settore produttivo di successo, come la Francia. Certamente non poteva dirsi una privilegiata: era, infatti, la primogenita di 18 figli, nati da un calzolaio e da una sarta. Negli anni in cui cresce, la Lombardia era già attiva nel settore della moda, ma le donne erano impiegate prevalentemente come operaie, tessitrici, ricamatrici, tuttofare. Rosa prende la licenza elementare alle scuole serali, politicamente ha le idee chiare e appena diciottenne parte con la delegazione del Partito Operaio Italiano a Parigi per partecipare a un congresso internazionale sulle condizioni di lavoratori; a Nizza, dove intende fare esperienza come sarta, viene messa alla prova con un manichino e confeziona sul momento un abito che trova subito compratrici. Nella capitale francese inizia a pensare alla possibilità di creare una moda italiana, ispirandosi ai dipinti del Rinascimento. Non abbandonerà mai comunque l’impegno politico assieme al ruolo creativo; per 27 anni sarà anche docente di Storia del costume in scuole professionali femminili e autrice di volumi sull’argomento. Veste attrici famose e ottiene premi anche all’Esposizione di Milano nel 1906; la prima guerra mondiale la vede impegnata nel fronte pacifista e rappresenta l’Italia nel 1915 alla Womens’ International League for Peace and Freedom all’Aja. Rosa fa il suo intervento in francese, propone una revisione dei testi di storia eccessivamente militaristi, di boicottare i giocattoli che rappresentano armi e di istituire accanto al Ministero della guerra quello per la pace. Viene segnalata come disfattista e con il fascismo Rosa si ritira in Liguria insieme al marito. In pieno fascismo pubblica i tre volumi sulla Storia della moda attraverso i secoli. Il suo impegno politico assume un’altra veste: invia una lettera al presidente della corte d’assise nel 1947 nella quale riporta la confessione fatta al marito da Amleto Poveromo, dell’uccisione materiale di Giacomo Matteotti.

Alla professione sudata dell’avvocatura è dedicato il capitolo su Elisa Comani; la prima donna che aveva chiesto di essere ammessa all’avvocatura era stata la piemontese Lidia Poet, laureata a Torino con una tesi sul femminismo; dopo due anni di pratica legale aveva richiesto l’iscrizione nell’Albo degli avvocati, bocciata definitivamente nel 1884 dalla Cassazione. La legge n. 1776 che offre la possibilità definitiva per le donne di esercitare l’avvocatura, consente a Elisa Comani, nata a Bergamo nel 1893, poi trasferita nelle Marche per completare gli studi, di diventare la prima donna avvocata. Dopo essersi iscritta nel giugno 1918 all’Albo dei procuratori di Ancona e cancellata in seguito a un ricorso, viene confermata dalla legge del 1919. Elisa debutta al tribunale di Ancona difendendo un soldato accusato di codardia, come lei stessa ricorda sulla rivista «La donna»; si ritrova addosso tutti gli occhi e mille sguardi inclementi che la fanno vacillare sotto il peso della grave responsabilità, davanti ad un pubblico quasi morboso, e prevalentemente femminile che voleva giudicare se la donna aveva meritato o meno di essere ammessa all’avvocatura. Elisa aderisce al socialismo riformista, diventa esperta di Diritto del lavoro e sostiene l’emancipazione femminile; già sposata, si lega all’avvocato Malintoppi e per ottenere il divorzio si trasferisce a Fiume, perdendo sia la cittadinanza italiana sia l’iscrizione all’Albo; dopo l’annessione di Fiume all’Italia nel 1924 può rientrare, sposarsi e ottenere di nuovo l’iscrizione all’albo.

Due coraggiose sarte anconetane, Irma Baldoni Di Cola, detta Mimma, e Alda Renzi Lausdei sono ricordate come ‘salvatrici’, dopo le conseguenze drammatiche dell’armistizio annunciato da Badoglio. Nel giro di una settimana i tedeschi avevano fatto prigionieri 12.000 soldati italiani, ponendoli di fronte all’alternativa di entrare nelle loro file o essere deportati nei campi di lavoro in Germania; Alda in particolare progetta un piano per far evadere quanti più soldati possibile e chiede l’aiuto delle altre, esponendo il da farsi: “Dobbiamo rimediare tute da lavoro, fare cappelli di carta da imbianchini, trovare abiti civili. Io li porterò dentro la caserma, e li darò ai soldati. Questi in un modo o nell’altro usciranno”. Tutte si mettono a lavorare senza sosta e travestono i militari nelle maniere più disparate: chi da donna, da suora, da prete, da frate o da lavoratore. Le sarte, come scrive l’Autore, danno vita a un’operazione di salvataggio collettiva. A un certo punto i nazifascisti, dopo aver scoperto la manovra, bloccano ogni via d’accesso alla zona, ma grazie al piano delle due sarte e di tante altre donne, almeno 4000 persone riescono a salvarsi. Nelle pagine successive, il libro di Marco Severini sposta l’attenzione su figure femminili che hanno acquisito il diritto di eleggere ed essere elette, con le prime elezioni amministrative tra la primavera e l’autunno del 1946. Una terna, di cui la prima della penisola a indossare la fascia tricolore è Ninetta Bartoli, cinquantenne, eletta sindaca di Borutta piccolo comune in provincia di Sassari. A seguire, Caterina Tufarelli, laureata in Giurisprudenza all’Università di Napoli, eletta per la Democrazia Cristiana a San Sosti, in provincia di Cosenza. Terza, Ada Natali, maestra marchigiana di Massa Fermana, figlia di un sindaco socialista ridotto in fin di vita dalle squadre fasciste, eletta per il Partito Comunista e poi passata nel ’48 in Parlamento.

Il volume termina con la figura di Carlina Calcatelli, che ha dedicato tutta la sua esistenza all’attività politica sindacale. Nata nel 1920, era la primogenita del calzolaio Carlo, iscritto al Partito Socialista e di Diana Giovanelli, lavorante di cucito e simpatizzante comunista. Le convinzioni politiche dei genitori antifascisti, laici e socialisti causano alla famiglia non pochi problemi durante il ventennio fascista. Con l’ingresso dell’Italia nella seconda guerra mondiale i pochi nuclei antifascisti vengono sottoposti a ulteriori controlli; i familiari sono privati dei generi alimentari e Carla è costretta dal padre a fare a meno anche della sua bicicletta, che viene barattata con la farina; inoltre i fascisti si presentano sistematicamente in casa per requisire tutto ciò che trovano, tra le prime cose l’apparecchio radio, requisito con l’accusa di ascoltare Radio Londra. Nella primavera del ‘44, Carla viene catturata assieme ad altre donne, per spingere gli uomini a uscire allo scoperto, ma riesce a fuggire: vive per oltre due mesi nei rifugi sotterranei cercando di trovare cibo per tutti e correndo gravi rischi. Subito dopo la liberazione, intraprende la carriera politica a Corinaldo e si scrive al Partito Socialista di Unità Proletaria. Carla frequenta scuole di partito sindacali prevalentemente a Roma, e per le amministrative del 1946 tiene comizi nelle varie frazioni di campagna. Per le politiche del 1948, tutte le sere Carla trasmette un giornale parlato, “la cui preparazione impegnava parecchie ore della mia giornata poiché dovevo sempre seguire gli ultimi avvenimenti politici per farne il commento che veniva trasmesso con un altoparlante sulla piazza principale del paese ed era seguito da molta gente; giornali parlati di altri partiti venivano trasmessi a poca distanza e la gente si spostava dall’uno all’altro” (p.140). Nel 1949, si sposta a Torino ed entra nella Federazione del Partito Socialista; passa al sindacato tessile prima a livello locale e poi nazionale, diventando Responsabile del Movimento Femminile Provinciale del Partito Socialista torinese; nel 1961, entra nel sindacato tessile della Cgil. Nei primi anni ’60, Carla è fra i promotori di un congresso sulla nocività dell’asbesto, dimostrandosi davvero pionieristica. Si occupa molto della condizione femminile in fabbrica come in famiglia; per Carla l’emancipazione della donna deve camminare di pari passo con l’emancipazione della classe operaia. La sua esistenza è riassunta in un libro dal titolo Esperienze di vita, pubblicato nel 2019.