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 A Francoforte è una giornata molto calda e le famiglie cercano un po’ di frescura nei parchi cittadini, alcuni dei quali sono attrezzati con piscinette e giochi d’acqua per i bimbi. Lei è seduta a bordo piscina, indossa dei pantaloni lunghi, arrotolati alle caviglie perché non si bagnino, una maglietta a maniche lunghe, sopra alla quale scivola un largo camicione smanicato. Il capo è coperto da una fascia nera che le avvolge la fronte e sulla quale è annodato un foulard. Avrà 30-35 anni. È visibilmente accaldata, bagna più volte la mano e la porta alla fronte per rinfrescarsi. Davanti a lei sguazza una bimbetta di circa 4 anni, che indossa un costume da bagno e si diverte a schizzare la mamma. Guardo questa scena, guardo la bimba, e la prima cosa che mi viene in mente è: “Quando toccherà a lei? Quand’è che perderà l’innocenza dell’infanzia? Quando perderà il diritto di divertirsi liberamente e assumerà degli obblighi? Quand’è che sarà costretta a coprire il proprio corpo da capo a piedi anche in piena estate? A 12, 13 anni? O forse prima? Forse alla comparsa delle mestruazioni? Il che può avvenire anche intorno ai 9 anni…”.

In questa situazione due cose mi si sono materializzate molto chiaramente in testa. La prima è che se in quel momento fosse arrivato un gendarme (con i pennacchi, con i pennacchi…) e avesse intimato a quella donna di allontanarsi perché il suo abbigliamento non era consono, io, con il mio bikini, mi sarei battuta con le unghie e con i denti perché potesse rimanere così, vestita come era, lì dove era. Un simile intervento violento sarebbe stata una vera e propria umiliazione pubblica e non oso immaginare l’effetto che avrebbe potuto avere sulla figlia. La seconda cosa – avvertita simultaneamente e con la stessa lampante chiarezza – è che mi batterò sempre, allo stesso tempo e se possibile con maggior forza, perché per quella bambina non arrivi mai il momento in cui sia costretta a coprire il proprio corpo. Che quel momento non arrivi mai né per lei, né per mia figlia, né per tutte le bambine del mondo.

Il dibattito sul divieto del burkini in Francia – la cui eco mi è giunta da lontano, mentre ero in ferie – mi è subito sembrato surreale. Da un lato l’idea di promuovere l’eguaglianza fra uomo e donna imponendo un divieto alla donna mi pare quantomeno maldestra, propria di chi si trova di fronte a un fatto compiuto – che forse andava in qualche modo prevenuto – e non sa che pesci pigliare. Dall’altro tentativi, altrettanto maldestri, di rivendicare il burkini come strumento di libertà della donna musulmana, che altrimenti non potrebbe andare in spiaggia e dovrebbe rimanere chiusa in casa.

Eppure dovrebbe essere abbastanza lapalissiano che rivendicare il diritto a non dover esibire il proprio corpo non ha nulla a che vedere con l’accettazione dell’obbligo di coprirlo. Avere il diritto di gestire il proprio corpo significa esattamente poterlo esibire senza essere costrette a farlo, così come poterlo coprire senza essere costrette a farlo. Non è una differenza da poco. Non è dunque un problema di centimetri di pelle più o meno coperta, ma di quel che c’è dietro i “pezzi di stoffa”, del valore e del significato di quel che si indossa (o non si indossa). E dunque, quel che conta rispetto a qualunque forma di abbigliamento è la risposta a questa domanda: se domani cambio idea e voglio indossare un bikini anziché un burkini, posso farlo senza subire conseguenze di nessun tipo? È chiaro che nessuno di noi è assolutamente libero, nel senso di totalmente privo di qualunque condizionamento. A seconda dei contesti, ci sono delle norme convenzionali che ci “impongono” un certo abbigliamento e un certo comportamento: non si va in ufficio o a fare la spesa in bikini, ma in una spiaggia naturista è addirittura “obbligatorio” stare nudi. In questi casi però si tratta di mere convenzioni secolari, contingenti, che non derivano da nessuna norma assoluta, trascendente, religiosa o ideologica, ma sono frutto di largo consenso e sono continuamente esposte a mutamenti. E soprattutto, sono universali: sono cioè rivolte a tutti e non a determinate categorie. Nel qual caso si tratterebbe di discriminazione.

Altrettanto lapalissiano dovrebbe risultare che non è certo con un obbligo rivolto alle donne che si interviene efficacemente per promuovere l’eguaglianza di genere e rimuovere la discriminazione. Se quel che abbiamo a cuore è l’autonomia delle donne, e non la onanistica petizione di princìpi, allora non possiamo non riconoscere che nei molti casi in cui velo, niqab, chador, burqa, burkini ecc. sono davvero imposti (in maniera più o meno esplicita e diretta) alle donne, un loro divieto tout court (il caso di scuole e uffici pubblici merita un discorso a parte) sortirebbe effetti opposti a quelli sperati, dando man forte ai maschi di casa che avrebbero un argomento in più per tenere le donne segregate.

Proprio rivendicando con orgoglio il nostro (faticoso e niente affatto concluso) percorso di liberazione e autonomia, non possiamo non ricordare che esso mai è passato attraverso divieti imposti alla donna stessa. Semmai attraverso interventi legislativi volti a impedire o ostacolare quanto più possibile la discriminazione. Dunque rivolti contro chi discrimina, non certo contro chi è discriminato.

Il dibattito sul burkini (come anche quello sul velo e su tutto l’abbigliamento di alcune donne musulmane) è importante perché che non si tratta affatto di una querelle su un pezzo di stoffa, non è un problema di dress code. Se fosse così, sarebbe già finito prima di cominciare. Che ognuno sia libero di indossare quel che vuole – nei limiti, relativi e continuamente rivedibili, di quelle convenzioni sociali di cui sopra – è fuor di dubbio. Ma il punto è esattamente che il velo rappresenta il ritorno del sacro anche in contesti dai quali lo avevamo faticosamente allontanato. Esattamente lì dove il processo di secolarizzazione aveva sostituito convenzioni sociali sempre rivedibili, si vuole reintrodurre una norma assoluta, inaccettabile perché discriminatoria.

Il giorno dopo l’incontro con quella donna, nello stesso posto, ho avuto la risposta ai dubbi che mi tormentavano. Sempre in quella piscinetta una bambina di 9-10 anni, non di più, indossa uno strano indumento: pantaloni al polpaccio, maglia a maniche lunghe che arriva larga fin quasi alle ginocchia. Non sono normali vestiti, sono di un tessuto simile a quello dei costumi da bagno. All’inizio penso che possa essere uno di quei costumi semi-integrali che molto spesso in Germania si usano per i bambini molto piccoli con la pelle molto chiara per paura delle scottature. Ma lei non è una bambina molto piccola, e ha una bella pelle scura, olivastra. No, non è un costume contro le scottature, è un burkini. Di fronte a casi come questo (e non è certo una rara eccezione) tutte le chiacchiere sulla libertà stanno a zero. Ma mi chiedo: aiutiamo quella bambina a rivendicare la propria autonomia vietandole di indossare il burkini e condannandola dunque con ogni probabilità a restare chiusa in casa? Ne dubito. Allo stesso tempo mi chiedo: la aiutiamo facendo finta di non vedere la violazione della sua autonomia e ripetendo come un mantra che non tutte le donne musulmane subiscono imposizioni? Dubito fortemente anche di questo.(26 agosto 2016)