La storica  Anna Bravo
I libri da lei pubblicati:     Raccontare per la storia-Narratives for history. Ediz. bilingue
La conta dei salvati. Dalla Grande Guerra al Tibet: storie di sangue risparmiato
A colpi di cuore. Storie del Sessantotto
La prima volta che ho votato. Le donne di Piacenza e le elezioni del 1946
I Nuovi fili della memoria. Uomini e donne nella storia. Per le Scuole superiori. Vol. 1: Dal 1350 al 1650.

Vi segnalo l’intervista uscita su Micromega che Simonetta Fiori   ha fatto  alla studiosa di storia Anna Bravo, una protagonista del movimento femminismo in Italia. Un movimento ramificato e dialettico ma ancora estremamente vitale.

Forse non era mai accaduto che il femminismo occidentale producesse simboli e idee quasi opposti nel giro di pochi giorni. Da una parte i vestiti in nero sul red carpet hollywoodiano, e la frase pronunciata  da Oprah Winfrey: «Il tempo degli uomini brutali è scaduto!». Dall’altra l’appello di Catherine Deneuve e di altre intellettuali francesi che su Le Monde difendono la libertà sessuale, anche «la libertà degli uomini di importunarci».

Tra Europa e Stati Uniti due visioni del mondo contrarie: laicità versus puritanesimo, spregiudicatezza contro politicamente corretto. E soprattutto — contro una storia a lieto fine che sembra scritta negli studios americani — il coraggio di attraversare quel mare di ambiguità che sono i rapporti tra uomini e donne. Temi delicatissimi su cui è interessante ascoltare una voce poco conformista, la storica Anna Bravo, che ha posto le donne al centro delle sue ricerche e del suo impegno militante fin dalle origini del femminismo.

L’intervista

Partirei dall’appello francese, che rivendica per le donne il potere di scegliere, e quindi la libertà di essere “importunate”.

«Condivido la sostanza, anche se non mi piace il linguaggio. “Importunare” è una parola infelice. Però è centrata la questione dei rapporti tra uomini e donne, che implicano desiderio, complicità, simpatia, e anche interesse, prevaricazione, oppressione: rapporti troppo complicati per essere liquidati con il politicamente corretto».

Soprattutto l’appello sottrae le donne da un’eterna condizione di vittime, restituendo loro la capacità di dire no. E di dire sì.

«È un altro punto centrale. Le donne non sono soltanto vittime, ma soggetti dotati di potere: avere un potere piccolo non è la stessa cosa che non averne alcuno. Questo deve essere riconosciuto, perché altrimenti riduciamo il femminile all’inconsistenza di una fogliolina al vento. Le donne sono consapevoli del proprio valore erotico e sanno come governarlo, anche se non sempre è cosa facile. Ma è giusto dire che siamo sufficientemente accorte per distinguere tra il corteggiamento goffo e la vera molestia. Lo sappiamo tutte se una cosa che l’uomo ci propone ci fa piacere o ci far star male».

Un’obiezione ragionevole è che molto dipende anche dalle condizioni sociali e culturali. È più facile sottrarsi al ricatto maschile in un salotto che in fabbrica, dove rischi il posto di lavoro.

«Attenzione. Non vorrei che le proletarie finissero per apparire due volte vittime. Dietro queste obiezioni vedo un paternalismo che nasconde un classismo alla rovescia: forse che le borghesi sono necessariamente più accorte e le altre povere oche smarrite? Io penso che tutte le donne capiscano benissimo allo stesso modo. Il punto è che in determinate condizioni devono faticare e rischiare molto di più, anche conseguenze rovinose. Devono patteggiare di più con sé stesse e con l’altro. Ma vorrei ricordare che tutto è cominciato negli studios di Hollywood, non in periferia».

I vestiti neri sul red carpet dei Golden Globe hanno chiuso in modo spettacolare tutta la storia cominciata con il caso Weinstein. Come vede l’intera vicenda?

«Con una certa preoccupazione. Lo schema — denuncia, esecrazione pubblica, autocritica, punizione esemplare — fa venire in mente i “processi popolari” della rivoluzione culturale cinese. Lì i professori condannati andavano a zappare la terra, qui Kevin Spacey viene ripudiato da Ridley Scott. È il trionfo del radicalismo puritano. Ho una certa nostalgia per le femministe americane dei primi anni Settanta che lottavano contro il modello perbenista e rispettabile».

Le ultime immagini di Hollywood — tutti in piedi, commossi, ad applaudire la fine del patriarcato cattivo — evocano la scena di un film. Una storia volutamente a lieto fine.

«Quella dei vestiti neri è una grande scena di teatro politico dove prevale il lutto, il pianto della madre, il simbolo della donna ferita: molto efficace sul piano delle emozioni, ma non credo che ci faccia andare avanti. Trovo irritante anche questa enfasi sui giganti maschili imbattibili cui le donne “ cedevano” come costrette da una sorta di ius primae noctis. Se poi ti metti a ucciderli simbolicamente uno per uno, temo non serva a niente. Ha ragione la Faludi quando sostiene che i patriarchi cadono, ma il patriarcato è più vivo che mai. Le ragazze del “Me too” dovrebbero porsi il problema della costruzione di nuove norme giuridiche ed economiche. Mi pare che ci stiano pensando».

Resta il problema di un dominio maschile che sopravvive anche nella testa di molte donne: come se ne esce?

«Ho due sogni privati. Il primo è vedere una ragazza che, insidiata, minaccia il suo molestatore: ti do un pugno se non la smetti. L’altro sogno è vedere al contrario una ragazza che per suo calcolo accetta, e poi con sana sfacciataggine rivendica: l’ho fatto, e allora? Oggi la religione del politicamente corretto uccide questa libertà».

Però così non si cambiano le regole del gioco maschili.

«Il sistema cambia solo se le donne si sottraggono alla condizione di vittime. Siamo soggetti: rivendicarlo è un passo importante. In Francia hanno mostrato più coraggio e più laicità, esponendosi anche a critiche che fanno male. Per questo molte donne preferiscono parlare liberamente solo in privato. Ma questo è triste». ( 14 gennaio 2018)