«…… (ndr. la Costituzione), no, non è una carta morta, questo è un testamento di centomila morti. Se voi volete andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra costituzione, andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati. Dovunque è morto un italiano per riscattare la libertà e la dignità, andate lì, o giovani, col pensiero perché lì è nata la nostra Costituzione.» (Discorso di Pietro Calamandrei, Scuola umanitaria, Milano, 26 gennaio 1955). Fiorentino (1889-1956), avvocato, docente universitario e scrittore, tra i fondatori del Partito d’Azione (1942-47), nel Gruppo Autonomista del CLN (1942-’47), eletto alla Costituente e componente di Commissioni e Sottocommissioni e Comitati consultivi esiziali per la Carta costituzionale, la legge sulla stampa e il Codice di Procedura Civile, Pietro Calamandrei sentì il bisogno di ricordare ‘ai giovani’ la matrice e l’importanza della Costituzione, dei suoi prinicipi e della Libertà, in un ciclo di conferenze autorganizzato nelle scuole e già contestate dalla parte monarco-fascista anche se il Fascismo era stato messo al bando ed esisteva il “reato d’apologia del Fascismo”, simboli e gestualità inclusi. Tre anni dopo, Aldo Moro introdusse “l’educazione civica” nelle scuole che insegnava le forme di governo della cittadinanza, il ruolo di cittadini e cittandine attenti/e alla gestione e al modo di operare dello Stato. Le due ore al mese di educazione civica per le medie e le superiori, che non prevedevano valutazioni, diventarono, nel 2010/11, dopo due anni di sperimentazione, una disciplina che tratta cinque temi (educazione ambientale, stradale, alimentare, sanitaria [basi di pronto soccorso], per un’ora settimanale all’interno delle materie di storia e geografia, in ogni scuola d’ordine e grado. Ogni elemento di quella disciplina reclamerebbe più spazio e approfondimenti, ma essendo in argomento la Costituzione e a maggior ragione, nel settantennio della Repubblica e del suffragio femminile/universale, ci concentriamo su di essa (Gazzetta Ufficiale del 27 dicembre 1947, n. 298) e andiamo per monti e per valli, per fabbriche e per campi, per strade e per piazze, spesso casa per casa, a cercarla nei nomi dei tanti e delle tante che soffrirono e morirono per la nostra democrazia e libertà. Il 30 aprile cadeva cinque giorni dopo l’annuncio radiofonico di Sandro Pertini che a nome del Cnlai (Comitato nazionale di liberazione Alta Italia), incitava all’insurrezione sull’esempio di Genova e di Torino. Le storie diverse della cosidetta “insurrezione perfetta” nel Triangolo industriale (Genova, Milano, Torino) parlano di come fu impedito ai Tedeschi e ai Repubblichini di arroccarsi sulla linea del Po; di come, per salvarle alla prossima Italia, si occuparono le fabbriche, si scacciarono dai palazzi pubblici i nazifascisti e dalle caserme i fascisti prima dell’arrivo degli Alleati, con l’aiuto delle truppe partigiane scese dalle montagne, dei Gap, delle Sap, dei Gruppi di difesa della donna, dei partiti clandestini già ricostituiti o in costituzione. Torino aveva iniziato gli scioperi operai il 18 aprile e “nel giorno di Aldo, il 26 per uno”, come da frase in codice, era insorta, ma continuò a essere insanguinata da rastrellamenti e da cecchini per molti altri giorni.

Il 30 aprile 1945, la 34ma Panzer Division del generale Hans Schlemmer, in ritirata dal fronte orientale (Liguria), compì la strage di Grugliasco e Collegno, vicino a Torino: 65 persone (35 partigiani e la parte restante civili, con epilogo il 1 maggio con la fucilazione di un tredicenne, Romano Dellera, preso in ostaggio dai Tedeschi, fucilato e abbandonato nel cimitero di Rivoli. Seguì la ritorsione partigiana su 29 militi della Repubblica sociale. Le stragi di civili proseguirono fino al 3 maggio, quando il generale Schelemmer si arrese agli Alleati giunti intanto a Torino, liberata.

Il Piemonte dette un alto contributo di vite femminili, di ogni età, vittime del regime e della guerra e delle stragi e di rappresaglie durante il ritiro delle divisioni tedesche e la fuga dei fascisi, durate fino ai primi di maggio. Ricordiamo, tra le decine di donne cadute il 30 aprile 1945, l’undicenne Teresa Visconti, falciata da raffiche di mitra mentre pascolava le mucche; Susanna Novero, Felicita Daniele e Davina Bertoglio, fucilate per rappresaglia a Santhià e poiché le date sono sempre indicative, il 15 maggio, venti giorni dopo quella ufficiale della Liberazione, Fiorina Gattico morì a Varallo Pombia a seguito delle ferite riportate come “effetto collaterale” di uno scontro tra Tedeschi e partigiani il 26 aprile.

Dunque, i campi, le strade, le carceri, disse Calamandrei, e anche nell’ultima voce, senza parlare delle deportazioni, l’elenco è lunghissimo. Il 10 gennaio 1944 entrò nelle carceri di Via Parma (Al), una bambina di sette anni, Anna Fuoco, arrestata a Cascinagrossa dai fascisti al posto del padre, Ernesto, e quando la liberarono, a fine mese, era tanto malata nel fisico e nell’animo da non sopravvivere alle cure. Non so se ci sia una scuola elementare intitolata ad Anna Fuoco, ma sarebbe giusto che ci fosse e se c’è è un luogo di alto civismo, uno di quelli in cui andare a cercare la nostra storia e la nostra Costituzione.

(“La Resistenza Donna” in M. Florio, Le grandi donne del Piemonte, Piazza ed., 2004, pp. 379-412)