I sud, le mafie: le donne si raccontano

Due momenti fra i tanti dell’intenso programma del convegno “I sud, le mafie: le donne si raccontano” organizzato da Casa internazionale delle donne, Società italiana delle letterate, Libera e daSud (5-7 aprile 2013) per ” cogliere le trasformazioni messe in atto da donne nel contesto in cui vivono, le modalità e le forme con cui esse vengono concretizzate” dando voce a donne del nord e donne del sud di diverse competenze e discipline – storiche, sociologhe, scrittrici, giornaliste, magistrate, animatricisociali, fotografe, registe. In apertura, dopo i ringraziamenti, doverosi e sinceri, alle promotrici, e la sottolineatura dell’importanza dell’appuntamento “nazionale” in un luogo speciale quale la Casa internazionale delle donne, è stato proiettato {{il video}} “il Sud, le mafie: le donne si raccontano”, di {{Maria Grazia Lo Cicero }} e {{Pina Mandolfo}}: un susseguirsi di voci femminili, le più diverse, nel filone della testimonianza e della riflessione. Un video corale, molto bello, tecnicamente perfetto, che ha messo in campo molti dei temi e dei linguaggi in agenda.

Sono donne che, come le relatrici, rifiutano la riduzione a stereotipo, la semplice equazione {{Sud=Criminalità=Svantaggio}} più volte evocata e decostruita; che operano in una nuova angolazione per parlare di mafie, di tutte le mafie, non semplicemente “contro” ma proponendo azioni, sottraendosi all’essere trasmettitrici di culture mafiose; donne che sperimentano la dolorosa presa di coscienza e il percorso oppositivo della “resilienza”, ma, con termine coniato dalle donne di Palermo, agiscono la “restanza”: l’individuare e vivere e sostenere forme “sane” di costruzione sociale e di etiche, individuali e collettive. Resilienza e restanza convergono e si conciliano nella “resistenza”, terreno di utopie condivise, di sdegno e di azioni, in cui dirompe anche “la scrittura”, dall’impegno e dal ruolo innegabile e di particolare valenza e originalità d’obiettivi, al femminile.

La scrittura spesso più della parola pronunciata, più dei silenzi che fanno parte del discorrere mafioso – e al proposito è stato più volte ricordata la capacità di Giovanni Falcone d’interpretare, negli interrogatori, quelle assenze di voce piene di significati – rileva l’esistente nei territori mafiosi, in tutta Italia non essendo possibile circoscrivere o addossare le mafie al Sud.

L’immagine conclusiva del video “il Sud, le mafie: le donne si raccontano” è quella di un traghetto che lascia il molo, e su di essa è intervenuta, a fine mattina, {{Franca Imbergamo,}} nel suo splendido intervento “a braccio”, non potendo concordare con lei che sia stato “a volo basso” dopo quelli precedenti d’impronta letteraria, filosofica e movimentista.

Franca Imbergamo, {{magistrata della procura nazionale antimafia}}, “siciliana nata vicino a Siracusa, che ha sempre lavorato in Sicilia e che si occupa di Sicilia”, ha magistralmente arato il terreno della lotta alle mafie con gli strumenti della legge dopo aver ricollocato al centro le donne d’Italia, noi tutte, “non essendoci un traghetto che possa lasciare la penisola, che possa sottrarci alla consapevolezza di appartenere a culture mafiose, a uno Stato in cui le mafie prosperano protette da poteri politici e interessi economici difficilmente identificabili ma esistenti, anzi la condizione prima per la loro sussistenza.

Nel Sud la criminalità organizzata è un indicatore più visibile della cultura mafiosa che non è limitabile agli atti che compie, essendo la sua permeabilità nel tessuto sociale quella che costruisce percorsi di paura, di complicità e di sfiducia, fomenta il senso di perdita, di isolamento, d’insignificanza, favorisce la depredazione, radica la percezione di uno Stato assente e/o complice.

Nel Sud tutto questo è solo più visibile e dato per scontato, ma è nel Nord e a Roma che radicano il potere economico delle mafie e le sue coperture.

Franca Imbergamo ha sottolineato “l’errore di delegare alla magistratura la soluzione del caso”, di “non comprendere la complessità del vivere in una società mafiosa dove le donne possono, e hanno dimostrato di saperlo fare, di rompere i codici mafiosi ma hanno dimostrato anche di sapersi adattare, di farsi mediatrici oltre che trasmettitrici di una cultura mafiosa, sempre al maschile, come al maschile è quella della legislazione che le si oppone.

Anche le “donne fortunate, che hanno potuto fare ricerche e prendere posizioni coraggiose contro le mafie”, ha detto la magistrata, “o che hanno pensato di vivere in parti d’Italia non toccate dal fenomeno, partecipano di {{una società che ha permesso alle mafie di espandere i loro interessi in tutte le regioni e ben oltre i confini}}; a loro s’accompagnano, spesso neppure in senso figurato ma nella concretezza del vivere in questo tipo di società, le tante altre donne, d’ogni età, estrazione, censo, lavoro che coprono, proteggono, frappongono immagini oneste e tranquillizzanti, di facciata (maestre, impiegate, casalinghe), nei rapporti tra i loro uomini e la magistratura, tra la restante società e il carcere, giustificandosi con le tradizioni e i doveri del ruolo, fingendo di non sapere cosa facciano i loro uomini, figli e parenti o da dove arrivi la ricchezza e lo status delle loro famiglie; donne che nella complicità scelgono a proprio vantaggio e il non dimenticarlo aiuta a cambiare veramente l’angolazione e a combattere con maggior rigore tutte le mafie, senza inutili atteggiamenti compassionevoli.”

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