Si parlerà del SANGUE DELLE DONNE sabato 13 maggio prossimo nel pomeriggio al FIPM (Festival Internazionale di Poesia di Milano) con l’intervento della poeta Antonella Barina sui simboli e sul mito della Melagrana, che dall’antichità ad oggi rappresenta il mistero del sangue femminile, e le poete di “FIL ROUGE – Antologia di poesie sulle mestruazioni”, CFR, 2015. Co-curatrice assieme alla poeta Loredana Magazzeni di questa antologia che ha raccolto le opere di 105 poete italiane e straniere, nella sua introduzione Barina presenta la propria ricerca originale sui miti del divino femminile ai quali lavora fin dagli anni settanta.

Nel 2015 “FIL ROUGE” è stato insignito dello  Speciale “Premio di scrittura femminile Il Paese delle donne & Donna e Poesia” de “Il Foglio de il Paese delle Donne”.  

Qui a seguire il saggio di Barina che figura in “FIL ROUGE” e le motivazioni del premio assegnato presso la Casa Internazionale delle Donne di Roma il 21 novembre 2015 all’antologia “meticolosamente curata – è detto nella motivazione – da Antonella Barina e Loredana Magazzeni, che ci obbliga a fermarci, e a considerare gli atteggiamenti di più generazioni verso questa manifestazione del corpo femminile storicamente e geograficamente così diversificata”.

 

 

IL FUOCO DELLE DONNE: IL MITO E LA POESIA

di ANTONELLA BARINA

 

E stiamo davanti alla luce del fuoco che abbiamo ereditato

dall’inizio della storia

come fecero le nostre madri e nonne e le madri loro.

Ishigaki Rin

IL FRUTTO PROIBITO

È il rosso sangue della melagrana a rappresentare nel mito il mistero del sangue femminile, il nutrimento che sta alla base della potenza creativa della donna, quel ciclo mestruale – da mens, mese – che è la manifestazione fisiologica più evidente e insieme segreta della differenza tra i generi. Dottori della chiesa, romantici e psichiatri focalizzati sul primato del pene non sono riusciti a mettere a fuoco quale sia stato, nei millenni, il vero oggetto d’invidia, il fulcro della contesa simbolica tra i due sessi: ce lo rivelano in modo esplicito le subincisioni peniche (Bruno Bettelheim, Ferite simboliche. Un’interpretazione psicoanalitica dei riti puberali, Sansoni, 1973) con cui le etnie arcaiche imitavano il fluire mestruale come simbolo del potere procreativo. Il sangue sacrificale della vittima andrà poi via via sostituendosi al sangue di vita.

Millenni di manipolazione dell’immaginario non sono tuttavia riusciti a cancellare del tutto il mistero originario. Il frutto proibito dell’albero di Eva nutre tutti i figli e le figlie che la dea porta in sé, come nuovi semi. La melagrana (malum, mela, e granatum, con grani), assieme al papavero il cui seme con qualità psicotrope tanto gli assomiglia, è attributo della dea arcaica e di quelle che ne discesero: di Era signora dell’Olimpo, fino ad Afrodite e Side. Durante le Tesmoforie, la Festa delle Donne dedicata a Demetra legislatrice, interdetta agli uomini, erano le donne ateniesi a nutrirsi di melagrana per ottenere fecondità dato il suo potere di “far scendere l’anima nella carne”, con fondamento nelle proprietà alimentari e medicamentose del frutto. Dalla Sicilia a Eleusi, sede duratura del culto di Demetra e Kore, sono le fronde del melograno ad incoronare gli officianti, ma gli uomini non potevano cibarsene.

In greco il frutto del melograno in greco è detto σίδη o ροιά, a designare il suo colore rosso, ma vi è chi (con etimologia non confermata, ma ottima sintesi) lo indica come ρόδι, parola composta da ροή e δήναμη, a indicare lo scorrere della forza dell’universo. Il flusso che genera la vita, in continuità, da madre e figlia: Demetra (Da/Ga-Meter), la terra madre, si risveglia e germina con il ritorno della figlia Persefone, la Kore/figlia, il principio vitale della vegetazione, il grano giovane. Staranno assieme per tanti mesi quanti sono i grani di melagrana che la giovane ha assaporato. La triade del mito femminile della ri/generazione, rispecchiandosi nell’avvicendarsi delle stagioni, era completato da Ecate, l’anziana, il grano maturo. Di altre culture si sa che per le sue virtù il melograno era presente sia nei riti di matrimonio che, per auspicio di rinascita, nei funerali.

Con la patriarcalizzazione, il dio dell’oltretomba rapisce Kore alla madre e si insinua nel rito di passaggio da madre a figlia: è lui a erogare a Persefone i chicchi di melograno che scandiranno il tempo della separazione da Demetra. Da quel momento il maschile si impossessa del mito, tenta di omologarvisi come nel sanguinare dei membri recisi dei sacerdoti di Cibele. Il luogo del sacro ritiro legato al ciclo mensile viene ovunque profanato, il simbolico femminile estirpato. L’altra faccia è l’adorazione tantrica e segreta di quel mistero, ormai totalmente permeabile all’ordine delle gerarchie maschili. Probabilmente il malum/mela diventa malus/male – infermità, rovina, danno, pena, tormento, misfatto – ben prima della diffusione della Bibbia e delle diverse, ma convergenti, misoginie monoteiste. Il rosso è segno di vita nelle culture arcaiche, ma solo vescovi e cardinali continuano a indossare purpuree vesti: la sfera generativa femminile resta ancor oggi intaccata dall’idea di “impurità”, avvilenti e persistenti i riti esorcizzanti legati al puerperio tanto che le stesse donne sembrano a tratti spregiare il proprio privilegio. Tuttavia per alcune tradizioni l’albero del Giardino di Eva resta il melograno dal miracoloso frutto, il serpente che vi si avvolge indica la sapienza. Per gli alchimisti, nel cui linguaggio figurano metafore e numeri legati alla gestatio femminile, la Mestruazione corrisponde a diverse fasi ed elementi dell’Opera, è tra l’altro il liquido capace di corrompere la materia solida, un procedimento correlato alla lunazione: ma del corpo della donna si perde, almeno apparentemente e per i più, memoria.

Questa raccolta poetica fotografa lo stato dell’arte oggi, dal punto di vista delle donne. Se negli anni settanta si ventilava la pratica del risucchio con il metodo abortivo Karman (aspirazione del contenuto dell’utero) per eliminare il “disturbo”, il self-help (auto-visita) ha poi aiutato a riappropriarsene. Le poete, senza alcun preliminare input ideologico e in molti casi a partire da sé, riprendono in mano la Materia, ne cercano il significato nella propria storia, denunciano spaesamento, estraneità, ma in alcuni casi gioia, orgoglio. Soprattutto, si riaggancia su questo terreno la relazione fondante tra madre e figlia. Di nuovo l’arrivo del mestruo è occasione di festa, sebbene ancora ristretta e familiare. Da oltreoceano giunge notizia di giovanili Menarca Party e si inaugura la Menstrala Art di Vanessa Tiegs, che ha come componente base il sangue mestruale, sdoganandolo da riservatezza e vergogna, rimossa la quale spesso cessano gli spasmi del ventre in travaglio uterino (nell’adolescenza uscii dalla morsa del dolore mestruale inventando un personale rituale di ringraziamento rivolto ai quattro punti cardinali).

La quæstio è sul potere pro/creativo femminile, da sempre bersaglio dell’integralismo fallico. Mentre in occidente il feminicidio raggiunge il suo apice e incalza da oriente e da sud il movimento misogino che osa portare il nome della principale dea egizia, le donne si ricongiungono al Paradiso, il giardino segreto al cui centro sorgeva l’albero della dea. E dunque nulla è perduto, ma tutto abbiamo ancora, poiché – dicono le Sorelle australiane – noi tutto ricordiamo.

Nel giardino segreto, ogni mese, il miracolo si rinnova.

 

 

LA FATICA DELLA FEMMINA OSCURA

Fuoco che crei e che distruggi, artefice fiamma!

Simone Weil

 

Nel maggio 2012 Vannia Virgili, poeta del Gruppo 98, portò all’incontro “Dell’Invecchiare e della Morte”, organizzato da Vittoria Ravagli a Ca’ Vecchia in Sasso Marconi, un testo di Lao Tzu. Ne fui entusiasta, perché raramente le letture poetiche coincidono con condivisioni sapienziali. Il brano appartiene al capitolo sesto del Tao Te Ching, opera che va sotto il nome del saggio cinese che si vuole nato intorno al 570 a. C. Ecco il testo che la poeta lesse in quell’occasione:

Lo spirito della valle non muore.

Questo si dice della femmina oscura.

La porta della femmina oscura

è la valle del cielo e della terra.

Sembra durare ininterrottamente,

nella sua azione è infaticabile.

In quell’occasione mi sembrò particolarmente importante il richiamo all’energia creativa femminile e cosmica, alla sua fatica e cioè alla sua Opera. Girai la citazione a un signore che di lì a poco avrebbe tenuto un “Seminario sulla Luna Nera” per un pubblico tutto femminile. Intendevo suggerirgli che stava andando a spiegare ai pesci come si nuota. Rispose con una versione differente dello stesso testo, più consona alla propria impostazione:

Lo spirito della valle non muore mai.

È il femminile primordiale.

Le porte del femminile primordiale

sono le radici del cielo e della terra.

Tenue come una ragnatela,

ha appena un soffio di esistenza.

Eppure il suo uso è inesauribile.

 

La versione, a prescindere da alcune diminutio, risente di uno scarto prospettico: se l’ “azione”  indica sia il punto di vista dello spirito della valle sia quello di chi vi è in contatto, l’  “uso”  di questa forza generatrice, indicata già nella letteratura taoista come sorgente femminile, mostra unicamente la prospettiva di chi vi attinge. Inoltre “infaticabile” è diverso da “inesauribile”: visualizzavo i laghi di montagna in secca d’estate per lo sfruttamento vallivo e, insieme, lo sfruttamento dell’opera femminile, l’incuranza della fatica delle donne, la sopravvalutazione della loro inesauribilità e la sottovalutazione della  loro opera. Passando a un analogo concetto induista, risposi a mia volta che «l’uso è di chi assorbe Shakti, la fatica è di chi la possiede». Vi fosse qualche dubbio, nella traduzione attribuita ad Osho la “femmina mistica” è strumento atto a servire:

Lo spirito della valle non muore mai.

Si chiama la femmina mistica.

La porta della femmina mistica

è la radice del Cielo e della Terra.

Incessantemente perdura.

E quando attingi alla sua fonte

ti serve senza fatica.

 

Esegesi: «non c’è dubbio che è la mitezza, l’umiltà, la debolezza che finiscono per avere il sopravvento: come l’acqua, come la donna, come l’infante, come il vuoto della valle»,  una sequela di fuorvianti rigidità dicotomiche che fossilizzano la mente come le opposizioni puro/impuro,  pulito/sporco, piacere/dolore, orgoglio/vergogna, dove al secondo termine facilmente ed erroneamente si associano, principalmente, le mestruazioni. Per mondarle dall’ignominia bisogna, a partire dal mito e dalla poesia, smontare i tranelli metalinguistici, gli spodestamenti semantici, la sottrazione di attributi salvifici.

Sentivo il bisogno definitivo di far danzare Kali, personificazione dell’energia femminile attiva e travolgente, la Signora del Vuoto, colei che tutto divora, come il tempo – da cui prende nome – e il fuoco. Far circolare Shakti, l’energia divina femmnile. Quell’anno per “Bologna in Lettere” proposi al Gruppo 98 una lettura da Il desiderio nella voce di 25 grandi poete, dove nel 2011 avevo selezionato poesie delle grandi – da Saffo a Janis Joplin – in cui ricorreva il tema del fuoco. Si tratta di una raccolta che era stata propedeutica alla stesura di un testo teatrale su Eleonora Duse, della quale volevo individuare meglio le qualità shaktiche con cui indubitabilmente Eleonora aveva inseminato il teatro novecentesco, da Artaud a Stanislawskij e oltre. Volevo andare alle radici del mito, fino a Demetra che, con una fiaccola in mano, percorre il mondo alla ricerca di Kore: questo, anzi, era l’input primario, poiché il testo riguardava il rapporto tra Eleonora e la figlia Enrichetta. Non è un caso che l’inizio dell’umana civiltà sia contrassegnato dal “furto del fuoco” di Prometeo. D’Annunzio, che ne Il fuoco aveva attinto alla Shakti dusiana ricambiando con disprezzo la raggiunta età della sua ispiratrice, non riuscì o non volle restituirle nemmeno il testo che Duse gli aveva richiesto invano proprio su Persefone figlia.

A Bologna le 25 poete del fuoco furono scartate. Fu Serenella Gatti del Gruppo 98, autrice dell’incandescente romanzo Era ed è ancora, a salvare l’evento. «Del fuoco» disse «a parlare saranno le poete di oggi, lo chiameremo: Donne di Fuoco». Nella Sala Rossa di Palazzo Re Enzo, in Piazza Maggiore, le poete si produssero in quanto di meglio ispirò loro il tema del desiderio e del fuoco. Loredana Magazzeni lesse la sua Fenomenologia del mestruo. Corrispondeva perfettamente a quello che cercavo: altrove Lao Tzu parla del “nutrimento della Madre” per indicare la sorgente cosmica. Il collegamento tra fuoco e mestrua è vitale. Le chiesi di inviarmi il suo testo e lei mi propose di raccogliere le poesie sulle mestruazioni.

Il sangue mensile delle donne è indice letterale o metaforico della nostra potenziale creatività, si tratti di figlie e figli così come del nostro travaglio nelle diverse arti. Nutrimento del nostro operare, che continua oltre l’età feconda. «Ruminavo erba amara / non avendo chicche per addolcirmi la bocca / fino alle soglie di un giugno appassionato: / uno sfolgorio di messi d’oro», scrive Paola Tosi, anche lei del Gruppo 98, nella raccolta Frammenti di vecchiezza.

 

IL DISTACCO E L’ILLUMINAZIONE

Il Fuoco esiste dapprima come luce

Emily Elizabeth Dickinson

 

A che serve la poesia se non a illuminare, ad aprire nuove strade? Far uscire dal silenzio l’evento mestruale è il primo passo verso la sua accettazione, verso la celebrazione gioiosa del menarca (μήν, mese, αρχή, inizio, il primo flusso mestruale), verso la definitiva destrutturazione della castigazione biblica che storpia il nome di Astarte in Ashtoreth facendolo diventare “qualcosa di vergognoso”. Fine dunque della percezione del mestruo come ingombro, peso, sofferenza, del travaglio femminile come dolore. Impossibile, però, se non si sana il dolore della madre.

In armonia con il succedersi delle stagioni, il mito di Demetra e Kore doveva corrispondere al passaggio generazionale del potere procreativo, simboleggiato dal melograno come emblema di fecondità, e dare forma lieta al distacco tra genitrice e figlia. L’intervento del dio che rapisce Kore tragicizza il distacco in perdita, induce spaesante follia nella madre. Il melograno sacro diventa elemento secondario di separazione, ma tutto è riconvertibile nella mitopoiesi: possiamo reinventare il mito a partire dal mito e nuovamente leggere quel distacco non più come privazione, ma come naturale prosecuzione da sé. La Fiamma passa di mano, la madre può accettare senza drammi la fine del rapporto simbiotico con la figlia così come il nuovo seme si separa dalla pianta. Il valore di questo mito sta proprio nella ricerca di una nuova misura per la consegna generazionale, per il passaggio senza competizione del potere generativo. È la soddisfazione di lasciar andare la figlia verso la nuova vita che l’aspetta, così come Demetra si separa da Core per ritrovarla nel giusto tempo di una nuova relazione che tollera la distanza. Né posso tacere il bellissimo viaggio compiuto con mia figlia sedicenne nei luoghi misterici della Grecia e ciò che ne è tra l’altro derivato, la nostra mostra di immagini Alla ricerca di Demetra e Kore.

Per la madre questo significa ben disporsi alla fine della propria fertilità fisiologica, attraversare la soglia della menopausa (μήν, mese, παὒσις, cessazione) che porta in sé, tra l’altro, tanta esperienza e – per lo più sprecata nella marginalizzazione – arte di governo. Credo che non si sia che all’inizio dell’esplorazione della sacra follia: quella che prende Demetra di fronte al rapimento di Kore è legata allo scacco della dea monca del principio generativo da lei stessa originato. Va nominato il diffuso timore di diventare paradigma della “donna anziana imbellettata” che Pirandello evoca nel suo saggio sull’umorismo (nota 1) e che induce al riso gli uomini per quello che l’autore chiama “sentimento del contrario”: lo stesso che fa ridere Demetra quando l’oscena Baubo, all’apice della tragedia della perdita, le esibisce il proprio sesso.

Prudenza ci induce a ispezionare con riguardo e cura anche la follia senile delle donne, delle nonne. A non dimenticare il tempo di Ecate, la Luna Nera. Ad accettare il limite come soglia di una nuova e più motivata esistenza che – con o senza riconoscimento – completa il ciclo dell’Una e Trina. La risposta è il puro suono della risata in luogo ora della venerazione della fecondità, racchiusi in un medesimo corpo che si trasforma “spassionandosene” (nota 2) come limite estremo della liberazione.

Ed è interessante – poiché donando la vita doniamo anche la morte – che proprio il sentimento del contrario sia il fondamento dell’episodio che illuminò un fedele di Kali, dove la Madre Nera sorge dal Gange in forma di bellissima dea, partorendo una stupenda creatura che un attimo dopo, ad insegna del tempo, divora.

L’ illuminata Ma Gcig (Ma Gcig, Canti spirituali, Adelphi, 1995, a cura di Giacomella Orofino), monaca tibetana dell’XI secolo, si muove nello spaziotempo quando scrive:

Si stia liberamente nello spazio

della condizione essenziale della mente,

la Grande Madre.

Qualsiasi pensiero o concetto illusorio sorga,

si comprenda che la stessa illusione

è la Grande Madre.

La Madre non è incatenata

all’illusorietà dell’esistenza.

 

Ad indicare l’apertura su nuovi cammini che sappiano coniugare il simbolico relativo al sacro del femminile e la sua fisiologia riscattata da fuorvianti deviazioni metalinguistiche,  per illuminazione – partendo dal testo di Lao Tzu – si potrebbe allora, conseguentemente, dire:

 

Il fuoco del suo ventre è eterno.

Questo si dice della Madre luminosa e oscura,

albero che congiunge cielo e terra.

Lei è la porta sul vuoto.

La sua danza è fonte

e opera infinita.

 

 

Nota 1: «Il vuoto interno si allarga, varca i limiti del nostro corpo diventa vuoto intorno a noi, un vuoto strano, come un arresto del tempo e della vita, come se il nostro silenzio interiore si sprofondasse negli abissi del mistero (…). È stato un attimo; ma dura a lungo in noi l’impressione di esso, come di vertigine, con la quale contrasta la stabilità, pur così vana, delle cose: ambiziose o misere apparenze. La vita, allora, che s’aggira piccola, solita, fra queste apparenze ci sembra quasi che non sia più per davvero, che sia come una fantasmagoria meccanica. E come darle importanza? Come portarle rispetto?». Luigi Pirandello, in L’umorismo e altri saggi, Giunti, 1994

Nota 2: «Nella concezione di ogni opera umoristica, la riflessione non si nasconde, non resta invisibile, non resta cioè quasi una forma del sentimento, quasi uno specchio in cui il sentimento si rimira, ma gli si pone innanzi, da giudice; lo analizza, spassionandosene; ne scompone l’immagine; da questa analisi però, da questa scomposizione, un altro sentimento sorge o spira: quello che potrebbe chiamarsi, e che io difatti chiamo il sentimento del contrario». L. Pirandello, op.cit.

 

 

 

Speciale “Premio di scrittura femminile Il Paese delle donne & Donna e Poesia” de “Il Foglio de il Paese delle donne” XXVIII, 21 novembre 2015, n. 2; a cura di Irene Iorno e Maria Paola Fiorensoli.

  XXIII° PREMIO “DONNA E POESIA” 

POESIA EDITA (premio unico): ANTONELLA BARINA e LOREDANA MAGAZZENI

FIL ROUGE. Antologia di poesie sulle mestruazioni, Edizioni CFR, 2015.

Il corpo è fondante per il nostro rapporto di donne con il  mondo. Il nostro ciclo mensile è una ferita-simbolo che si rinnova, creando una relazione di continuità tra noi e un qualcosa di “misterioso” che fa parte da sempre dell’essenza femminile. Ci aiuta anche a non separare il corpo dalla mente, perché questo rituale è prova tangibile del nostro esistere. Ed è importante, per  pudore e  naturalezza, mantenere questo “segreto” senza far diventare il corpo merce per la pubblicità e per gli ossessivi rituali del moderno come la bellezza estrema, le diete o i trucchi.

Poi, nel corso degli anni il nostro ciclo vitale cesserà, ma avremo vissuto l’evento nel dare e ricevere la forza della vita. Il pregio di questa antologia è che viene così salvata la memoria individuale e collettiva di un accadimento che arriva per tutte le donne del mondo.

Si potrebbe pensare che il fil rouge che le unisce  sia un argomento obsoleto ormai, per il fatto di essere stato finalmente sdoganato negli anni 70, quando quello che viene generalmente chiamato il secondo femminismo scelse di parlarne insieme a tutte le provocatorie esplorazioni del sommerso corpo femminile, ma non mi pare che questo aspetto fondamentale della vita della donna trovi un’esplicitazione chiara e – direi – serena nel nostro presente, troppo occupato a esorcizzare e cancellare ogni traccia di secrezione corporale con i più efficienti o tecnologici pannolini del mondo e con altri ritrovati.

Più che la consapevolezza del nostro corpo, allora, ne deriva una rimozione degli aspetti della vita che si oppongono ad un’immagine della donna sempre giovane, bella, allegra e asetticamente igienizzata. Allora ben venga quest’antologia, meticolosamente curata da Antonella Barina e Loredana Magazzeni, che ci obbliga a fermarci, e a considerare gli atteggiamenti di più generazioni verso questa manifestazione del corpo femminile storicamente e geograficamente così diversificata.

Se ne scopriranno tante  di modalità di rappresentazione di questo fenomeno da parte delle donne, il più delle volte marginalizzate per le impurità a loro attribuite, ma come sempre i ricordi portano con sé l’orgoglio di un tratto meramente femminile che è sigillo di identità e garanzia di perpetuazione della vita. E, come tutte le volte che si incomincia ad approfondire un tratto costituente della storia delle donne, si scoprono particolari sfuggiti alle generazioni precedenti. Vorremmo solo ricordare, per brevità, i versi iniziali della bella poesia Udaylee (ndr. intoccabile durante le mestruazioni), di Sujata Bhatt, tradotta magistralmente da Paola Splendore, su cui ha attirato la nostra attenzione l’amica Fiorenza Mormile:

Solo il legno e la carta si salvano

dal contatto con la donna mestruata.

Così hanno costruito questa stanza

per noi, accanto alla stalla.

Qui ci è permesso scrivere

lettere, leggere, e si può far guarire

le dita rovinate dai lavori di cucina.

[…]

Anche se si tratta di giorni di segregazione le donne mestruate leggono, scrivono e guariscono dalle fatiche quotidiane. Ancora una volta un aspetto preponderante della vita femminile si fonda con la capacità delle donne di raccontare se stesse nella scrittura.

 

                                                                                      Gabriella Gianfelici e Anna Maria Robustelli