Ci uccidono, ogni giorno: in casa, in automobile, per strada. Ci
uccidono per una parola di troppo: dire “no”, dire “basta” diventa per
noi donne – davanti a loro, davanti agli uomini – un azzardo, un atto di
temerarietà. Trovare un lavoro, uscire di casa, desiderare altro e
meglio per sè e e per il proprio futuro significa per noi donne mettere
in pericolo la nostra stessa vita.
_ Ci uccidono, ogni giorno: e alle loro spalle (nella loro testa) c’è una
società che continua a sostenere che ci sono “cose da donne e cose da
uomini”.

{{Le cose da uomini sono il mondo del lavoro, l’esercizio del potere,
l’autodeterminazione}}, la casa in ordine al ritorno dall’ufficio, dalla
fabbrica, dalla caserma, la cena pronta all’ora stabilita, il diritto di
dare ordini e pretendere obbedienza, {{l’accesso al corpo delle donne
senza chiedere il permesso}}, senza incrociare gli occhi di lei per capire
se c’è un desiderio corrisposto a dare senso.

{{Le cose da donne sono la cura della casa e dei figli, l’obbedienza}}, la
conformità ai desideri e alle decisioni degli altri, la pazienza,
l’obbedienza, la disponibilità sempre a darsi senza fare domande, senza
avanzare pretese per sè.

Ci uccidono, ogni giorno: e ogni giorno c’è qualche giornalista
pronto/pronta a parlare di “delitto passionale”, di “raptus della
gelosia” di fronte a uomini che uccidono la compagna e percorrono decine
di chilometri per ucciderne una seconda, uomini che tengono la pistola
nella tasca dei pantaloni o il coltello tra le mani, uomini che fanno
del loro corpo uno strumento di violenza e di morte.

{{Susan Brownmiller}} nel suo { {{Against Our Will: Men, Women and Rape }} } (1975)
racconta che Achille impiegava i Mirmidoni come efficaci agenti di
terrore e sostiene che nella nostra società gli stupratori svolgono per
tutti gli uomini quella funzione che i Mirmidoni hanno svolto per
Achille: gli stupratori, agenti di terrore, servono a trasformare le
donne in vittime, a tenerle al loro posto, a renderle fragili e piene di
paure.

Oggi possiamo dire lo stesso degli “uomini che uccidono le donne”.
Forse, meglio, dovremmo chiamarli “gli uomini che uccidono noi donne”.
{{Recuperare il “noi”}}, gridare la {{dimensione sociale e collettiva della
violenza contro le donne}} è l’unica via d’uscita di fronte all’ottusa
miopia di chi vorrebbe leggere ogni uccisione, ogni morte, ogni minaccia
come un episodio a sè, come il frutto isolato di una individuale follia,
della debolezza mentale (forse solo momentanea) di un uomo che ci viene
raccontato sempre secondo categorie facili e inadeguate: piccolo
criminale, pregiudicato oppure studente modello, lavoratore devoto.

Invece la verità è che siamo tutti coinvolti e non possiamo chiamarci
fuori. {{Non c’è – e non potrà esserci – soluzione privata}} per un problema
che è culturale e politico, per un dramma che ci chiama tutti a giudizio
perchè mette in luce le profonde spaventose contraddizioni di un
“personale” che sempre più ci viene proposto come dolce consolazione
alle frustrazioni della dimensione pubblica.
_ Ma che per le donne – se non riusciamo davvero a cambiare le cose –
rischia di diventare una condanna a morte.