Scrivo per un fatto avvenuto nel nostro ospedale, riportato in un libro. Il libro è ormai molto noto, perché molto noto ne è l’autore. Si tratta di Flavio Insinna e il titolo del libro è “{Neanche con un morso all’orecchio}”, edito da Mondadori.
E’ il {{racconto autobiografico di una sua dolorosa esperienza}}, quella della morte del padre, ricoverato per diversi giorni in un reparto di terapia intensiva del San Camillo Forlanini. Una storia che intercetta emotivamente esperienze umane e universali come quelle della sofferenza e del lutto. Una storia che{{ avrebbe certamente potuto rappresentare e sollecitare riflessioni serie, sulla complessità dei percorsi assistenziali,}} delle regole e delle procedure dei reparti di terapia intensiva, sulle criticità che vive oggi il nostro sistema sanitario impoverito di risorse e di cultura, sulle disparità di potere tra chi è titolare della cura e di chi è titolare della malattia, sul rapporto tra tecnologia e umanizzazione, su quello che bisogna difendere e su quello che non si deve accettare. O di tanto altro ancora.

Purtroppo la lettura inciampa in un capitolo dal titolo “{{L’infermiera stronza}}”… e di questo ritengo doveroso parlare. Non per una difesa d’ufficio di una operatrice (considerata da tutti i colleghi una brava operatrice e che sta vivendo silenziosamente e dolorosamente queste accuse), ma per le frasi, le parole che accompagnano il racconto. Vi chiedo di leggerle, con attenzione. L’impressione è di {{vero spaesamento}}!

Sono un medico, ho lavorato per tanti anni anch’io in ospedale e conosco bene le situazioni che vengono descritte. Sono stata e continuo ad essere convinta che “{{stare dalla parte del malato}}”, dei suoi diritti e della sua dignità, sia testimonianza non solo di impegno civile ma di responsabilità e qualità professionale. Ma sono stata e continuo ad essere altrettanto convinta che{{ la misoginia e il sessismo siano inaccettabili e pericolosi in ogni luogo}}, sempre.

In questo capitolo{{ il cliché “antropologico”}} della donna bassa, brutta, scorbutica e scostante è accompagnato da {{una ricetta “rieducativa”}} condita con robuste dosi di violenza, verbale ma anche fisica. Ritengo che il fenomeno della violenza contro le donne sia una realtà troppo seria per minimizzare messaggi, tanto più quando sono stati a lungo pensati, poi scritti e infine pubblicati. Gli stereotipi sessisti non sono mai innocui, ma agiscono nella percezione soggettiva di ognuno costruendo un terreno di “neutralità”, disponibile all’ambivalenza dei pensieri e dei comportamenti, di tolleranza e persino di giustificazione. La mia sensazione di spaesamento nasce proprio da qui.

{{Di questo libro si sta discutendo su vari blog}}. Accanto a commenti per fortuna di protesta e indignazione, leggo commenti di totale condivisione e approvazione nei confronti delle parole di Insinna; altri di vicinanza bonaria a quello che viene descritto come espressione di un “semplice sfogo” emotivo; altri persino di palese derisione per chi non sa essere di fronte a queste parole “almeno un po’ ironico”…

Le parole pesano e fanno opinione! Vi scrivo quindi per chiedervi di usare e di far pesare altre parole, le nostre parole, di donne ma soprattutto di uomini (sempre interpellati ma troppo spesso silenziosi). Parlate, scrivete, intervenite!