hilariStralci dell’articolo di Yasmine Ergas uscito su INGENERE

La  tranquillità con cui Trump ha evocato il suo tornaconto ha scatenato la reazione della stampa e di Hillary Clinton.

Clinton ha subito lanciato uno spot pubblicitario che, mettendo in risalto il riferimento di Trump ai propri interessi economici, ne ha sottolineato la mancanza di senso dello stato. La brexit ha dunque portato Hillary Clinton ad aprire la sua capiente cassa elettorale (oltre 42 milioni di dollari) per dare rilievo al presunto candidato repubblicano il quale, con quest’ulteriore dichiarazione fuori dalle regole, ha nuovamente  convogliato su se stesso l’attenzione generale senza dovere spendere un soldo.

Mentre tutti parlavano di brexit, però, si è prodotto un fenomeno interessante: un sondaggio sul Washington Post ha dato la Clinton vincente con uno scarto di 12 punti percentuali sul probabile avversario repubblicano. Il rinomato sito fivethirtyeight, che sbaglia meno di tanti, le attribuisce un’80.6% di probabilità di diventare presidente (contro il 19.3% di Trump). E anche se altri sondaggi rilevano un vantaggio clintoniano ben più risicato, il dato rimane importante. Cosa succede? Hillary è diventata più simpatica agli americani, i quali solo poco tempo fa ne denunciavano la presunta inaffidabilità e la superba indifferenza rispetto alle norme che vincolano la gente comune?  L’elettorato ha scrutato con maggiore attenzione le sue posizioni sui tanti punti del programma indicato sul sito – dalle tossicodipendenze alla formazione professionale, passando per l’autismo, i diritti delle donne, l’immigrazione e quant’altro – e si è dichiarato convinto? Se ne può dubitare. Oggi, Hillary incontra lo sfavore di quasi il 55% dell’elettorato; un dato leggermente peggiore di quello registrato ai primi di gennaio.

Azzardiamo un’altra ipotesi: Hillary è diventata un candidato come tutti gli altri.

Questa banalizzazione era già stata promossa dalla campagna di Bernie Sanders, eroe incontrastato di giovani, e anche anziani, alla ricerca di un’alternativa radicale e idealista all’establishment democratico. Hillary, ha affermato Bernie ripetutamente, è la candidata istituzionale, sostenuta dai grandi interessi finanziari di Wall Street, delfina dei guerrafondai annidati nel pentagono, promossa dalla macchina del partito democratico contro il volere del suo stesso elettorato. Bernie ha quindi dipinto Hillary come un candidato di vecchio stampo. Cosa c’è di nuovo in una conservatrice che persegue i propri interessi con il supporto dei poteri politici ed economici? Anche se non l’ha detto, Sanders ha fortemente fatto intendere che non basta essere donna per costituire una forza di rottura. A differenza di lui – veterano di un non meglio definito socialismo, e non poco protezionista – la campagna di Sanders è riuscita a far sembrare Clinton banale.

Ma da quando le primarie californiane hanno definitivamente consegnato la nomina del partito democratico a Hillary Clinton, la voce di Bernie è risultata sempre più flebile. Bernie è tornato a fare notizia con un  corsivo sul New York Times.  Brexit docet, ha scritto: il popolo che soffre gli effetti della globalizzazione non continuerà a patire il proprio declino in silenzio. Non vi è nulla di nuovo. Da tempo, Bernie attacca gli accordi commerciali internazionali – di cui Hillary (come suo marito, che ha negoziato il trattato con Messico e Canada) è stata promotrice. Così, Bernie è riuscito a spostare la posizione di Hillary rispetto al nascente accordo transpacifico. Il corsivo sul Times potrà forse  assicurare che il programma elettorale che il partito democratico dovrà approvare a Filadelfia rifletta le sue posizioni.  Certamente non può rilanciare la sua candidatura presidenziale.

Al centro dell’attenzione rimane Trump. E il consenso convoglia su Clinton. La quale sempre più appare come un politico a tutto tondo, con i difetti ma anche i pregi del suo ceto. La sua banalità diventa rassicurante. Conosce la macchina governativa; sa “far succedere” le cose. Senatrice dello stato di New York, ha conseguito notevoli successi e, tanto allora quanto come segretario di stato, ha riscosso il favore del pentagono. È vero che l’uccisione dell’ambasciatore Usa in Libia ha suscitato interrogativi sulle sue presunte responsabilità – è accusata di non avere reagito con la giusta rapidità alla richiesta d’aiuto proveniente da Benghazi – ma da quando, nell’ottobre scorso, ha reso la sua testimonianza in merito a questa vicenda, le critiche sono diventate sempre meno pregnanti. Se un sordo tam-tam attorno all’uso del suo server personale per inviare mail di lavoro continua a rimbombare da un talk show all’altro, sempre meno sembra catturare l’attenzione pubblica. Obama ha dichiarato che nessuno è mai stato così preparato per assumere la presidenza del paese.  Hillary è competente.

In un contesto segnato dalla paralisi congressuale, la conoscenza dei corridoi del potere è un netto vantaggio. Potrebbe garantire agli Usa un governo capace di governare. Ma per arrivare alla Casa Bianca, Clinton deve simultaneamente suscitare l’entusiasmo del voto giovanile e di protesta galvanizzato da Bernie, rassicurare l’establishment repubblicano sufficientemente perché non l’avversi troppo energicamente, e mantenere l’appoggio delle donne – quantomeno, di una certa età – e di quelle minoranze – specie, afro-americani – sulle quali da sempre conta. Per aiutare Hillary a navigare a sinistra, si è mobilitata Elizabeth Warren, grande sostenitrice degli interessi dei lavoratori e dei ceti medi, amata dai giovani, invisa a Wall Street. A calmare i repubblicani dell’establishment, ci penseranno a Wall Street, nel pentagono (e, forse, anche il suo amico Kissinger).

Fra le donne e le minoranze etnico-razziali è semplicemente impensabile che non trionfi; e Trump ha fortemente spinto gli ispanici verso di lei. E se, nonostante Elizabeth Warren, i giovani di Bernie sono tentati ad astenersi, è probabile che la paura di Trump li porti alle urne. All’appello mancheranno i bianchi – specie, maschi – privi di laurea universitaria. Ma numericamente Clinton dovrebbe farcela comunque.

In tutto questo, si perde il valore dirompente di Hillary. Gli Stati Uniti arrivano tardivamente ad avere una potenziale presidente donna. Ma ci arrivano con una candidata il cui successo politico non la spinge a dimenticare di essere donna. Non mette in disparte i temi del lavoro femminile, dei congedi familiari, delle discriminazioni, della cura dell’infanzia. Non nasconde il ruolo importante che ha assegnato alla considerazione dei diritti delle donne non solo agli albori della sua carriera politica, quando lanciò dal convegno di Beijing la parola d’ordine “i diritti delle donne sono diritti umani” ma anche nei suoi anni come segretario di stato – la “Hillary doctrine” in affari internazionali consiste nel sottolineare la centralità dei diritti delle donne nella promozione della pace e della sicurezza.

E non nasconde nemmeno le sue vicissitudini personali – anche quelle legate alle difficoltà che la vita matrimoniale le ha riservato. Se è un falco in politica estera, se è troppo vicina agli interessi finanziari, dimostra soltanto che le donne non sono necessariamente né pacifiste né avverse al grande capitale. Lo sapevamo già. Basta pensare a Maggie Thatcher. Ma è importante che non sia una donna che finge di non esserlo; o che pensa che per fare politica occorre mettere le questioni di genere in disparte. Hillary è una donna che sa di esserlo, e che, in quanto tale e non a dispetto del suo genere, ritiene giustamente di potere governare il paese che continua ad avere un ruolo centrale sullo scenario politico internazionale.