16473041_1306721189422362_7664026446168526673_nArticolo di Rosaria Gasparro

Leggendo l’appello dei seicento, ho pensato al “limite”. Fin dove ci si può spingere, fin dove si può sopportare, cosa non si deve superare. È evidente che per i cattedratici i limiti riguardano il declino della nostra lingua ad opera degli studenti e degli insegnanti che li hanno formati, con particolare colpa del primo ciclo dell’istruzione. I magnifici non vedono quanto quei limiti riguardino anche loro. Wittgenstein scriveva in merito che “i limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo”.

Nella mancanza di analisi e di dati, nella sequela sconcertante di luoghi comuni, nel pressapochismo conoscitivo dei documenti citati e delle realtà che si colpevolizzano, nella mancata ricerca delle cause e delle soluzioni che non siano il controllo gerarchico, scrivono da soli i loro limiti.

I limiti di un mondo che non s’interroga sulle proprie responsabilità, che non ha mosso un dito per impedire le politiche di distruzione della scuola pubblica, che non ha protestato per la riduzione in ogni ordine di scuola delle ore d’insegnamento della lingua italiana, che non si pone domande sulle nuove povertà, sui cambiamenti sociali, sulla domanda di inclusione dei soggetti deboli, sull’arretramento culturale e di civiltà che coinvolge tutti, che porta tre italiani su cinque a non leggere nemmeno un libro in un anno, a collocarci ai primi posti nel mondo per analfabetismo funzionale.

I seicento si tirano sdegnosamente indietro, non si sentono coinvolti nel processo di formazione, solo di denuncia. Ma da dove escono gli insegnanti? Chi è che li laurea? Quanta pratica scrittoria si fa in ogni ordine e grado? Pensano veramente che la didattica della lingua sia riducibile a quanto richiedono di verificare: “dettato ortografico, riassunto, comprensione del testo, conoscenza del lessico, analisi grammaticale e scrittura corsiva a mano”? Quanta pratica scrittoria si fa in ogni ordine e grado? Quanta scrittura di sé e del mondo? Quanto si scrive all’università se non per la tesi? Eppure sanno fin troppo bene che lo sviluppo delle competenze linguistiche riguarda tutti quanti, ogni ordine di scuola, università inclusa, che è un apprendimento permanente, una delle otto competenze chiave europee per la cittadinanza.

Imparare ad imparare è un’altra competenza chiave. Avviene a tutte le età. Può avvenire anche nelle aule universitarie la conquista ortografica dell’apostrofo e dell’accento. Non ci si sporca le mani a spiegarglielo e non si perde il prestigio. Sono gli effetti del passaggio dalla scuola elitaria, classista, a quella per tutti. Noi della scuola bassa conosciamo bene il fenomeno e lo amiamo, qui arrivano tutti, e tutti si prendono per mano non solo per il corsivo. Perché per molti, quelli che non arriveranno mai nelle vostre aule, già venire a scuola è eroico. Perché gli errori per molti bambini dalla vita difficile, quelli che abbiamo ingabbiato in definizioni che acquietano le coscienze, non sono quelli ortografici. Quei bambini che probabilmente non raggiungeranno i traguardi, che la vostra richiesta di scuola seria e responsabile, quella del merito, farà fuori. Ci vuole tanta scienza per fare questo.

“Il linguaggio è un labirinto di strade. Vieni da una parte e ti sai orientare; giungi allo stesso punto da un’altra parte, e non ti raccapezzi più” diceva sempre Wittgenstein. Proviamo a raccapezzarci insieme, la lingua è un divenire. E a volte può perdere la purezza accademica della Crusca, ma non l’anima.