Era il 2002, e scrivevo:” mi oppongo, come donna e femminista, alla condanna a morte per i quattro uomini che hanno stuprato la giovane Mukhtiar in Pakistan. Mi fa orrore lo stupro, ogni sua forma. Stupro è anche l’omissione di soccorso, quell’indegna corte di decine di uomini attorno al luogo dello stupro che non hanno fermato il delitto, e quel tribunale che ha ordinato la violenza; non solo chi esegue il delitto, ma anche i mandanti sono stupratori.

E chi stupra sa bene che, più ancora che il togliere la vita, la violazione del corpo di una donna, di una bambina, di un bambino è il modo più efferato ed efficace per marchiare del proprio potere la vittima; Mukhtiar è viva, sì, ma per sempre segnata da quello che le è successo, nel corpo, che si risanerà, speriamo, e nella mente, che ne porterà impresso l’agghiacciante ricordo per tutta l’esistenza.

Il femminismo ha detto a chiare lettere che la violenza sessuale è questione di relazione di potere, non di relazione sessuale; è il modo attraverso il quale la riduzione in minorità di un genere sull’altro segna il confine tra l’umano e l’animale. Non a caso un detto, la cui origine si perde agli albori del mondo, afferma, in ogni lingua e ad ogni latitudine, che l’animale uomo è l’unico a mentire, rubare e stuprare deliberatamente per ottenere ciò che vuole. Marchiare il territorio, definire il possesso, declinare la subordinazione: questo è lo stupro. Persino nelle galere tra i detenuti vige la legge, paradossale tra malfattori conclamati, dell’isolamento e disprezzo per chi sconta la pena per violenza carnale”.

All’epoca Mukhtiar, 18 anni, insegnante di religione dei piccoli al villaggio di Meerwala, nel Punjab meridionale, pagò per lo sgarro del fratellino di dodici anni, lo “sfacciato Shakoor”, reo di aver frequentato una ragazza di una casta più elevata; a lui fu inflitta la sodomizzazione, ma ci voleva una pena esemplare, per scoraggiare altri eventuali Shakoor, secondo il consiglio degli anziani. E lo stupro tribale collettivo di Mukhtiar è stata la pena esemplare. Per la Commissione pakistana per la difesa dei diritti umani nel paese ogni due ore viene violata una donna: nel Punjab la media sarebbe di quattro stupri ogni 24 ore mentre ogni quattro giorni si avrebbe una violenza di gruppo.

Ora la notizia della condanna a morte per quattro stupratori e femminicidi indiani.

Un’altra ‘condanna esemplare’, comminata questa volta dal tribunale ‘regolare’, che suona drammaticamente tribale. Moriranno per mano in questo paese grande e potente, così come sono morti in Pakistan, dove esistono le leggi patriarcali tribali, come muoiono i condannati alla pena capitale del Texas e della Cina, potenze economiche indiscusse e temute.
La giustizia umana non guarda alle differenze politiche ed economiche: in questo nord e sud, cattolici e musulmani, comunisti e capitalisti sono in armonia.

Ricordo che oltre vent’anni fa accesissime erano le discussioni tra donne e tra i diversi gruppi femministi sulla proposta di legge popolare contro la violenza sessuale, ma su due punti si convenne tutte: lo stupro doveva diventare un reato contro la persona, e non si chiedeva inasprimento delle pene. Giustizia, non vendetta. Così come ci siamo mobilitate per scongiurare la lapidazione di Safiya e Amina, e ci mobiliteremo finchè l’ultima fetida fiammella di fondamentalismo di qualunque provenienza bruci i diritti delle donne, che sono i diritti umani dell’umanità, io chiedo a tutti e tutte di fermare il boia che ucciderà gli stupratori. Il patriarcato e il fondamentalismo si alimentano e si fondano sulla violenza: fermiamola.