foto-ribelleFrida Kahlo è il titolo della biografia scritta abilmente da Rauda Jamis e ristampata nel 2009 da TEA. Un libro che schiude in poco più di 263 pagine tutta la vita dell’artista messicana. Jamis lascia, numerosissime volte, la parola direttamente alle scritture di Frida Kahlo.

Magadalena Carmen Frida Kahlo fu figlia di Wilhelm e di Matilde Calderon.

Segnato da un incidente automobilistico e dalla poliomielite, il suo corpo annaspò nella malattia per gran parte della sua vita. Fu anche allieva e moglie del pittore Diego Rivera. Il loro rapporto fu un’altalena di tradimenti e di mitizzazioni, di turbamenti e di silenzi, di disprezzo e di ammirazione. Lui la tradì. E Frida fece similmente. Due esempi tra quelli ricordati: ufficialmente con l’esule comunista russo Lev Trockij; segretamente con la fotografa italiana Tina Modotti.

Frida è sì imprigionata in un corpo mutato, ma allo stesso tempo è libera, ribelle, selvaggia, ostinatamente vitale e infinitamente innamorata della vita. Un’esistenza di sofferenze, la sua, la cui risultante è rievocata nell’autoritratto del 1944, “La Colonna spezzata”, dove si rappresenta con il busto nudo infilzato di chiodi, come un Cristo senza croce.

La pittura, la scrittura, la lotta rivoluzionaria, l’amore carnale, la bisessualità lampante lasciano poco spazio all’immaginazione: Frida si nutre del dolore allo stesso modo di come vorrebbe divorare la vita, in un lento processo di esistere.

Pittrice di scimmie, di forme antropomorfe, di embrioni fluttuanti e a lei legati, del letto-trappola-vita e di altro ancora a volte adulterato per raffigurare tutto quello che le attraversava la mente. Ritratti, ma anche rappresentazioni di una (ir)realtà straziante, fatta di calvari e felicità, di tracce di sé che partono dall’interno (le radici) e arrivano all’esterno (agli altri).

L’intelligenza di Frida, la sua incredibile sensibilità e la sua estrema capacità di rappresentare la vita l’hanno resa una invincibile partigiana dell’esistenza. Ha vissuto secondo i dettami della sapienza e, allo stesso tempo, dell’incoscienza. Ci ha insegnato, ma non di proposito, che nessuno di noi perde, se non ha perso se stesso.

Frida ha esorcizzato la morte anche attraverso gli “esercizi di approcci alla personalità” (l’incontro con gli altri e le altre). Per lei la sessualità non ebbe mai una declinazione sola, ma fu vessillo della libertà di amare e farsi travolgere dalla passione.

 

Morì a 47 anni per embolia polmonare. Il suo ultimo quadro è una natura morta intitolata “Viva la vita!”. Sì, perché Frida la vita l’amava disperatamente, con tutto il corpo imbrattato dalla malattia, ma con la passione, la carne e la tenacia che esplodevano nella sua testa. E non hai mai smesso – al di là dei momenti di cedimento dei quali il libro giustamente non cancella l’esistenza – di combattere contro un destino che la voleva perdente.

 

Questa breve lettura (tralasciando anche troppe cose, in verità), si potrebbe chiudere bene con le sue stesse parole: Il fatto è che vorremmo avere di noi un’immagine idealizzata. Vorremmo essere dèi. Ma non lo siamo! Siamo proprio quel miscuglio di carne e sangue. Niente di più? Siamo questa meraviglia! Uno straordinario corpo in cui si imprimono tutte le ferite, ma in cui solo quelle morali ci sembrano degne di interesse, magnificate perché sondabili, immaginabili, ma impalpabili. Sublimiamo quello che non è percettibile a occhio nudo. Vorremmo tanto essere dèi, essere ciò che non conosciamo, quindi immortali…”