Angela Bozzaotra intervista  Lorenzo Bazzocchi –  AlfaBeta2

Masque teatro. Il presente. Photo-Lorenzo Bazzocchi

Fino al 5 novembre a Forlì ha luogo la seconda parte del Festival Crisalide. Attivo dal 1994, il festival rappresenta un incontro tra forme e linguaggi scenici, teorie e pratiche filosofiche. Perché come in quest’intervista sostiene Lorenzo Bazzocchi, fondatore della compagnia Masque Teatro assieme a Catia Gatelli, il teatro ha a che fare con “la vita”, non un susseguirsi di mera produzione e promozione, bensì ricerca costante di un equilibrio tra pratica e teoria, conoscenze e trasmissione di saperi.

Il Festival Crisalide quest’anno arriva alla ventiquattresima edizione. Quali sono le specificità di quest’ultima, Il sole imprigionato? Da quali suggestioni è nata l’ideazione?

Il tema/titolo nasce sempre prima di tutto, a volte trova la sua definizione negli stimoli che provengono dalle edizioni passate, a volte è frutto di una intuizione istantanea.

Proviene da una sensazione che va facendosi strada. Si nutre di essa e la porge in forma condensata, cristallizzata. Come alimentare questa sensazione fondamentale?

Crisalide è il luogo in cui noi stessi cerchiamo di capire. Il titolo non è uno strumento per la scelta, ma una sorta di paesaggio nel quale inscrivere delle visioni, e si affianca ad altre indagini necessarie per mantenerci vigili ed evitare di cadere in luoghi che non ci appartengono.

Il sole imprigionato è l’immagine che Michel Foucault disegna per descrivere la condizione, lacerata e al tempo stesso radiosa, che visse Raymond Roussel, giovanissimo, intento a scrivere la sua prima opera, La Doublure. Non è difficile scorgere nel giovane Roussel, chiuso nella sua cameretta con le serrande abbassate per non far uscir i raggi che sentiva promanare dal suo corpo, la figura di tutti coloro che nel buio e nella solitudine, cercano di aprirsi un varco verso una nuova via. Improvvisamente è come se tutto fosse radioso, la realtà si piega sotto la pienezza di un ardore che solo raramente abbiamo la fortuna di vivere e che sempre in ogni scena della nostra vita rincorriamo. Crisalide si apre su questa immagine e la fa sua, proponendo un paesaggio abitato da figure che sondano l’interiorità per esternarla sotto forme inconsuete: è così il caso di Meytal Blanaru, nella sua esasperata ricerca di un movimento primordiale, così per Eleonora Sedioli nel suo procedere sotterraneo, o per Roberta Mosca nel creare collegamenti laschi. Questo il tempo della Crisalide di fine estate, dall’1 al 10 settembre. La sezione novembrina che sta per iniziare, dal 2 al 5 novembre, vede figure che abitano i luoghi della solitudine, quelli dell’Erodiade di Testori (regia di Renzo Martinelli, ndr) oppure quelli delle “amiche” di Elena Ferrante (il riferimento è L’amica geniale, romanzo che ispira Da parte loro nessuna domanda imbarazzante, regia di Luigi de Angelis, ndr) .

Una caratteristica che connota la rassegna sin dai suoi esordi è il connubio tra arti sceniche e filosofia – cito anche la scuola Praxis che si tiene ogni anno. Come si coniugano tra di loro questi due ambiti nella vostra esperienza?

Uscire dal teatro per potervi ritornare fortificati. Questo è il mantra di Crisalide. La costante a cui rifersi per comprendere il perchè di tante scelte. Al teatro abbiamo fatto riferimento costante, ma, da sempre, la ricerca di nuovi orizzonti è stata indirizzata in altro, nella fisica, nella matematica e soprattutto nella filosofia. È stata Logica della sensazione di Gilles Deleuze ad avvicinarci ad un mondo che, inizialmente lontano, ci è poi parso l’unico in grado di dare ragionevoli risposte ai quesiti fondamentali, a farci capire le semplici differenze di un fare considerato come praxis, come esperienza in atto, da contrapporre ad una poiesis, non nel senso di creazione, quanto mero atto del produrre, in certi casi, a tutti i costi.

Logica della sensazione si pone come un vero e proprio breviario per le arti performative e non solo.

Abbiamo assorbito gli insegnamenti di Deleuze ma sopratturro di Félix Guattari che rimane l’unico faro ancor oggi, a più di vent’anni dalla sua scomparsa, a rischiarare l’oscurità di questi anni d’inverno, come lui stesso definì, uno dei pochi in grado di farci comprendere i mutamenti in atto, i cambiamenti politici ed esistenziali che attanagliano il presente.

La scuola di filosofia Praxis rimane laterale al progetto Crisalide nel senso che nata per volere di Masque teatro, in collaborazione con i filosofi Carlo Sini e Rocco Ronchi, sta sviluppando un percorso suo proprio in originalità e direzione di ricerca.

Vorrei qui ricordare il laboratorio di filosofia condotto da Paolo Vignola nella Crisalide del 2012 e l’incontro, coordinato da Sara Baranzoni, dal titolo L’immagine del pensiero, cui presero parte alcuni dei filosofi cui facciamo costante riferimento, Ubaldo Fadini e Tiziana Villani.

Da quali esigenze è derivata l’iniziativa da parte della compagnia teatrale Masque Teatro di dare luogo a un festival? Quali le istanze? Quali le difficoltà intercorse?

Masque nasce nel ’92. Anche se Crisalide prende vita due anni dopo, nel ’94, la necessità di creare un luogo, uno spazio, fisico e mentale, nel quale mettere a confronto una poetica ed un modo di vedere le cose del mondo, era già presente all’atto di formazione della compagnia. Fortissimo il desiderio di disegnare un paesaggio nel quale riconoscersi. Quando entrammo in quello che fu ribattezzato Ramo rosso, un fatiscente magazzino del grano posto sulla via Emilia tra Forlimpopoli e Cesena, ci rendemmo subito conto di quale battaglia avremmo dovuto affrontare. Si capiva che il mondo non funzionava, asservito a regole distorte, lontane dai bisogni essenziali. Il Ramo rosso divenne il nostro baluardo, il nostro avamposto sul mondo. Certo un avamposto che serviva non tanto per farsi conoscere dal mondo, quanto per conoscere meglio il mondo. Su questa convinzione costruimmo i nostri spazi e le nostre relazioni. Da subito intuimmo che la forma del luogo che andavamo costruendo era decisiva affinchè fosse riconoscibile la volontà di mettere in discussione un sistema, la determinazione a non accettare supinamente i luoghi comuni e le modalità di un fare, quello teatrale, legato meramente alla produzione e alla distribuzione. Ci interessava la vita. Un teatro che generasse vita e creasse le condizioni per uno scarto, lo smarcamento da stili ed abitutudini che si vedevano legati alla costante ricerca del consenso, al ritorno dell’investimento. Perché passi un po’ di caos libero e ventoso, recitava la Crisalide 2016. La prossima, la venticinquesima, avrà come titolo L’esperienza selvaggia. La necessità di individuare un titolo/tema nasce dall’urgenza di creare un orizzonte condivisibile, un confine comune, all’interno del quale poter delineare un percorso di ricerca e di studio.

Perché ogni anno si rinnova questa esperienza? Perchè Crisalide? Un’urgenza? Un’abitudine?

Usciamo dalla scena per andare verso il mondo, per scandagliare il fondo di un mare che attraversiamo come una zattera capovolta. Le figure che la abitano sono precursori di un mondo a venire. La mescolanza di queste sensazioni, quella generata dal luogo, quella custodita, come un segreto, dall’artista è l’origine di nuove immagini, la sorgente di una forza sconosciuta che stravolge la vita e crea senso.

Con quali strumenti i linguaggi scenici possono veicolare dei significati? Come possono, se possono, avere un’incisione sulla vita?

Partirò da lontano, nella speranza poi di dare una risposta significativa. Masque nasce e vive in una condizione di marginalità rispetto al sistema teatrale. Di questa marginalità abbiamo in parte goduto. Agli inizi troppo lontane le urgenze da cui eravamo mossi, troppo diverse le modalità di produzione, altri i desideri che ci spingevano nella costruzione dello spazio di lavoro: il fatto teatrale era un tutt’uno con la nostra vita.  Ora non so proprio cosa stia a dire la parola teatro. Non che si siano smussate le differenze ma sento sempre meno urgente l’interrogazione sulla natura del nostro fare. Si agisce “naturalmente” ossia seguendo la propria natura e questo sentimento ora ci rende in qualche modo quieti.

Provengo da studi di ingegneria. Per diversi anni ho praticato quel mestiere, che sempre ha a che fare con la “riuscita”. L’attitudine che me ne veniva, di continuo confronto tra l’acquisizione delle conoscenze necessarie per portare a termine un compito e la realizzazione del medesimo, mi ha sempre messo nella angosciosa sensazione di sentirmi costantemente impreparato nel mio lento percorso di avvicinamento al teatro.  In Masque Teatro la parola “teatro” era lì per dire del nostro ardire. In realtà non so se “teatro” è la parola giusta per definire il nostro fare, mi piacerebbe pensare che non abbia nome.

La difficoltà nasce perché pur aspirando a un teatro ideale, inevitabilmente non riesco a pensare se non al nostro teatro. A complicare il tutto sta il fatto che il teatro sembra non coincidere unicamente con la scena. Non che lo spettacolo sia lo scarto delle nostre lavorazioni, ma certamente la questione della creazione non sta unicamente nella produzione di nuove opere. Il sistema teatrale spinge a questo: creare macchine per lo spettacolo. Noi diciamo basta con questa folle rincorsa alla produzione se non viene affiancata da un poderoso lavoro di accrescimento, di potenziamento e quindi di acquisizione di conoscenza condivisibile.

Quello che vedo è un gruppo di persone che lavorano a un progetto comune, che si dedicano alla costruzione del luogo in cui lavorare, che scelgono una direzione di studio e di ricerca e la sviluppano in tempi e modi consoni, senza subire lo stravolgimento imposto da condizionamenti esterni.   Non credo che questa aspirazione sia frutto di una visione utopica.    Ho sempre considerato il teatro come un estrattore.