Le città erano luoghi di lotta collettiva e di solidarietà.
Oggi, gli effetti del nuovo modello produttivo, definibile capitalismo
flessibile, non si riverberano solo sul mondo del lavoro, ma si proiettano sul
tessuto urbano.Così come il nuovo sistema produttivo genera rapporti per cui si lavora,
intensamente, sotto una forte pressione, ma non c’è più solidarietà fra
lavoratori/trici, sia in fabbrica che in ufficio, così anche {{nella città le
relazioni tendono a cambiare}} e a diventare superficiali e indifferenti.

Il primo passo è{{ la standardizzazione dell’ambiente urbano}}.

In parallelo con questa “architettura involucro” assistiamo all’equivalente
{{standardizzazione dei consumi}} : una rete globale di negozi in cui si vendono
prodotti identici in spazi tutti uguali.
Le città non offrono più nulla di inedito e l’omogeneizzazione degli spazi
pubblici, disperde interi patrimoni di storia comune e di memoria collettiva. L’
omologazione dei consumi estingue i riferimenti locali , così come il nuovo
mondo del lavoro cancella la memoria interiorizzata e condivisa delle
lavoratrici e dei lavoratori.

Come nel lavoro, i lavoratori, di qualsiasi tipo
siano, sono monadi fra loro, così gli ambienti sociali, le ondate immigratorie
sono {{compartimenti stagni}}. Sul posto di lavoro non c’è più conflittualità
indirizzata verso il datore privato o pubblico, così come nella città è venuto
meno ogni tipo di impegno civile, addirittura la semplice curiosità umana verso
gli altri.

Le fabbriche non sono più incardinate nel territorio, nel bene o nel male.
Oggi {{le imprese ostentano indifferenza per il luogo in cui si trovano}}.
Le amministrazioni locali e le comunità non ottengono nessun ritorno dalla
presenza nel loro territorio delle imprese, le quali non si assumono nessuna
responsabilità in relazione alla loro presenza nella città, anzi, approfittano
di questa mutata situazione geo-economica per ottenere enormi vantaggi, di ogni
tipo, minacciando di spostare le loro sedi.
Sono stati distrutti in nome della globalizzazione, declinazione del verbo
neoliberista, i meccanismi politici atti a spingere le imprese a dare un
qualche corrispettivo per i privilegi di cui fruiscono nel territorio.

La città, che, prima dell’avvento del neoliberismo, inglobava il lavoro , gli
spazi pubblici cerimoniali e quelli informali, oggi è completamente venuta
meno. I codici di condotta che informano il mondo del lavoro si sono travasati
nella vita sociale: non impegnarsi, non farsi coinvolgere, pensare ai propri
affari, non fare “politica”, rinunciare alla conflittualità sociale.
L’imperativo è cercare un lavoro, qualunque, e mantenerlo ad ogni costo.
Perderlo significa rischiare l’esclusione sociale. In cambio ci danno la
possibilità di andare in qualche centro commerciale dove, acquistando qualche
oggetto, ci possiamo sentire libere/i, ribelli, antirazziste/i e, magari,
impegnate/i.

Poi ci sono le iniziative dei comuni, delle province, delle regioni, dello
stato…. che, dopo aver scientemente distrutto ogni legame collettivo, lo
ripropongono falsamente attraverso il finanziamento più o meno manifesto di
{{mostre e fiere, rassegne “culturali” e finti saltimbanchi per strada.}}
Non contenti di averci tolto i luoghi dell’infanzia si vogliono appropriare
anche dei nostri sogni.
E ci sono i partiti che dicono di essere radicati nel territorio e che
risolvono tutto questo nel trascinamento folkloristico, presunto recupero delle
tradizioni.
E ci sono quelli che ci invitano a partecipare alle “processioni” da loro
indette per invocare qualche “grazia”.

{{La risposta è altrove. }}

Cercare un modo per ritrovare, nel lavoro, la dimensione collettiva e, nelle
città, il carattere politico dello spazio, significa {{riscoprire lo spirito e la
pratica della conflittualità sociale.}}

{{
immagine da pensieridieri.it}}