L’emancipazione malata come la definisce nel suo saggio Lidia Cirillo dà il titolo al libro (Edizioni Libera Università delle Donne) che, a partire dalle discussioni del collettivo milanese Donne e Politica e da due seminari organizzati dalla stessa LUD, ambisce a delineare un nucleo di pensiero forte ed un “femminismo di qualità diversa rispetto ad altri”. I 13 diversi contributi si collocano su differenti piani tematici e d’analisi (dalla prospettiva del femminismo internazionale e transculturale al lavoro delle badanti o al concetto di scambio sessuo-economico nell’intervista a Paola Tabet) e, al di là delle intenzioni e delle formulazioni di principio, non riescono a delineare una proposta politica condivisa.
_ Né i dissensi e le diverse posizioni politiche sono limitati soltanto al cosiddetto “reddito di esistenza” o”bioreddito”, inteso non come reddito garantito nell’intermittenza del lavoro bensì come reddito non legato a nessun tipo di condizioni, che Cristina Morini ripropone in questo testo.

C’è tuttavia un comun denominatore – il “femminismo di qualità diversa” con cui le autrici si qualificano – : l’ambiziosa volontà di rimettere a tema – all’interno delle trasformazioni sociali degli ultimi decenni – l’intersezione di genere/classe/cittadinanza o, come si potrebbe anche dire, il modo in cui la classe modella i rapporti di genere e come i rapporti di genere modellano quelli di classe.
_ E rimettere a tema il rapporto classe e genere in Italia significa riattraversare in modo radicalmente critico il “lungo periodo di intossicazione con dosi massicce di “differenza femminile”” da parte di settori del femminismo e della sinistra, entrambe ignari di riproporre in forma nuova temi storicamente presenti nelle culture dei movimenti delle donne e del movimento operaio, di sindacati e partiti politici.

Come si dice nella prefazione, infatti, la tentazione di dare un segno di valore e potere alla condizione di minorità delle donne non è la prima volta che si affaccia nella storia.
_ Ed è anche tutt’altro che originale di settori della nostra sinistra l’esaltazione omaggiante della “differenza femminile”, dato che la dirigenza maschile di sindacati, partiti socialisti e operai di varia ascendenza, più volte negli ultimi due secoli, ha stereotipizzato le lavoratrici e le donne primariamente nella funzione materno-riproduttiva per mantenere la “superiorità” di maschi produttori/capofamiglia e contemporaneamente difendersi dalla concorrenza della forza lavoro femminile.

Il volume { {{L’emancipazione malata}} }, dunque, prende le distanze dall’“ideologia maschile” del dualismo oppositivo tra uguaglianza e differenza e dalla dualistica contrapposizione di ruoli maschili e femminili.

La femminilizzazione degli spazi pubblici e, innanzi tutto, del lavoro si è sostanziata non solo dell’aumento numerico delle donne, ma anche di quella femminilizzazione qualitativa, intesa come valorizzazione delle doti femminili tradizionali nei più vari settori economici –dalla produzione industriale all’alta finanza -, che ha caratterizzato negli ultimi decenni posizioni “di ascendenza padronale” e l’apologetica, anche di sinistra, del postfordinsmo.

E’ analisi ampiamente condivisa che nell’attuale sistema produttivo post-fordista si registra la tendenza alla polarizzazione tra le figure professionali cui sono richieste competenze altamente specialistiche e una larga schiera di figure cui non sono richieste particolari professionalità ma capacità personali come il saper essere disponibili motivati socievoli. In questa larga schiera si sono aperte nuove opportunità professionali per le donne essendo apprezzato l’apporto di saperi, duttilità relazionale e affettività tipicamente femminili, cosi’ come quello delle competenze nell’ascolto e mediazione ritenute “naturalmente” femminili o anche delle capacità erotico-sessual-seduttive delle donne (Lea Meandri, Maria Grazia Campari).

Secondo {{Cristina Morini}}, inoltre, nell’economia sempre più immateriale della conoscenza si realizza una appropriazione complessiva del corpo-mente dei lavoratori, in particolare, dell’affettività, creatività seduttività femminili, che significa approfondimento della sussunzione reale alla valorizzazione capitalistica del corpo-mente e della stessa dimensione di socialità degli uomini e delle donne.
_ La sussunzione di cui parla Morini riguarda dunque moltissimo anche gli uomini, tanto più se, ridimensionando la portata della immateriale economia della conoscenza, guardiamo, ad esempio, alle nuove regole produttive della FIAT o alla diffusione nei nostri paesi a capitalismo avanzato delle molte forme di lavoro paraschiavistico che coinvolgono a maggioranza corpi-menti-vite maschili (concentrandosi la schiavitu’ femminile tra le sex workers).
_ Non si può, inoltre, interpretare in modo unilaterale – come è stato fatto all’interno dell’apologetica postfordista e come in qualche misure fanno anche alcuni saggi di questo libro – la valorizzazione delle “naturali” doti femminili di relazionalità flessibilità docilità.
_ Non si finisce, in questo modo, a svalutare l’enorme patrimonio di competenze che le donne hanno acquisito laureandosi meglio e più degli uomini (58% dei laureati in Italia), diplomandosi meglio e più degli uomini, investendo amore e passione nella loro formazione professionale sì da essere in grado di competere adeguatamente nel mercato del lavoro?
_ Inoltre se relazionalità e informalità sono fattori di successo nel lavoro post-fordista, come negare che il lavoro basato sulla relazione non è un attributo di genere? La relazionalità maschile è più strumentale, ma anche espressiva, e grazie ad essa gli uomini brigano, fanno squadra, cooperano nel e oltre l’orario di lavoro, allungano i tentacoli di reti informali e network professionali. E ancora come spiegare la cosiddetta valorizzazione delle “doti tipicamente femminili” quando le lavoratrici sono le più precarie, a maggioranza occupate nei lavori meno qualificati e meno retribuiti.?

A fronte della versione trionfalistica del postfordismo e della mondializzazione cui risulterebbero indispensabili le tradizionali virtù femminili, bisognerebbe ricordare che più volte nella storia degli ultimi due secoli, nelle fasi di innovazione tecnologica e/o organizzativa della produzione, sono stati gli stessi datori di lavoro ad esaltare come “doti naturalmente femminili” capacità e professionalità delle donne–lavoratrici di riserva, che intendevano sostituire al lavoro degli uomini, e ad esaltare, viceversa, in altre situazioni, la mascolinità delle professioni, quando si trattava di espellere le donne, contribuendo, dunque, in questo modo, a costruire nel cuore del conflitto di classe anche le identità di genere.

Lucidamente {{Lidia Cirillo}} riporta al centro dell’analisi le conflittualità di classe e di genere: più che alle tradizionali doti femminili guarda, da un lato, ai processi di emancipazione delle donne che hanno conquistato lavori e professioni, contribuendo a scardinare il compromesso di classe post-seconda guerra mondiale basato sul ruolo del capofamiglia maschio e, dall’altro, all’utilizzo della forza lavoro di riserva delle donne e degli immigrati per abbassare salari e erodere diritti del lavoro nel quadro neoliberista degli ultimi decenni.
_ Il presente ha un ventre antico: analogamente alle prime fasi del capitalismo industriale, nell’attuale globalizzazione dell’economia “il padronato” – sostiene Cirillo – si è servito non solo del trasferimento di attività nei paesi in via di sviluppo, ma anche della grande massa di forza lavoro immigrata e della riserva di lavoro femminile per indebolire attraverso la competizione nel mercato la resistenza dei lavoratori occupati e portare avanti la deregolamentazione neoliberista del lavoro.
_ Negli ultimi decenni, infatti, gran parte dell’occupazione femminile è stata sviluppata attraverso lavori precari e part-time (entrambe a maggioranza femminile in tutti i paesi UE) e —via competizione— ha reso possibile la precarizzazione anche delle fasce di lavoro maschile di età 30-49 anni che erano il cardine del lavoro garantito (fenomeno che già nel 1989 l’economista Gay Standing aveva denunciato come “femminilizzazione” del lavoro, intendendo l’estensione agli uomini del carattere di precarietà tradizionalmente femminile).

Mentre il razzismo non e’ solo una distorsione culturale, curabile con i buoni sentimenti, perché è pure un’illusoria risposta difensiva alla competizione che in alcuni settori lavorativi l’immigrazione comporta, il sessismo rappresenta anche – ma non solo – una altrettanto illusoria difesa dalla competizione femminile nel mercato del lavoro.
_ In entrambe i casi illusoria difesa dei lavoratori garantiti ché sempre l’erosione dei diritti arriva a toccare anche le fasce “più forti” che non hanno saputo e voluto farsi carico dei diritti degli immigrati o non hanno saputo e voluto assumere il lavoro privato di cura come questione dell’intera classe e non “naturale”, invariabile vocazione delle donne.
_ A ulteriore sostegno delle tesi qui sostenute è utile ricordare lo scempio operato da parte di settori della nostra sinistra e del nostro femminismo, quando, negli anni ’90, inneggiavano alle magnifiche sorti del post-fordismo e della libertà femminile che aveva finalmente imposto le “preferenze” delle donne per il part-time e i lavori flessibili, mentre, celata dietro la flessibilità, avanzava la precarietà attraverso le politiche dell’OCSE e della Commissione Europea che, in un quadro di riforme di chiaro stampo neoliberista, incentivavano l’impiegabilità e l’occupazione femminile esattamente nel part-time e nei lavori flessibili “conciliabili” con le responsabilità familiare.

Da questa storia e da questi errori occorre imparare – come suggerisce questo libro – , così come occorre riaffermare oggi, a fronte di un triste avanzare di sessismo e razzismo, l’assunto femminista per cui, al di là di analogie e circostanziate convergenze, la differenza di sesso non è assimilabile a nessuna altra differenza, né di razza né di classe ché tutte le attraversa e interseca.

In conclusione, penso che le parole di {{Campari}} possano assumersi come messaggio principale di questo testo, e cioè che occorre ripartire oggi dalla rinnovata constatazione della incapacità della classe di autorappresentarsi nella sua interezza, attraversata come è dal conflitto di sesso che richiede rappresentazione, e, dunque, rimettere in moto pratiche politiche che mettano al centro i soggetti reali, diversamente incarnati in donne e uomini.