Testo del documento in appello e adesione alla mobilitazione per il 14 giugno per la consegna delle firme alla Ministra Severino, che affermano l’urgenza della modifica dell’articolo 1 del Testo Unico di PS. L’art. 1 ostacola le vittime delle violenze che intendono sporgere denuncia nelle sedi proprie.La segregazione, lo stupro correttivo, la ritorsione per la disobbedienza
ai ruoli: riconoscimento pubblico a due velocità. Ma nella lotta per
denunciare siamo tutte uguali.

Dal primo Gennaio al 21 Maggio la stampa, locale e nazionale, ha reso noti
156 crimini sessuati perpetrati contro donne e bambine: stupri, percosse,
segregazioni, tentativi di soppressione. Ovviamente si tratta di una stima
per difetto: a questo numero impressionante di reati – evidentemente
denunciati dalla vittima o da terzi (nei casi di minori o di donne ridotte
in modo tale da necessitare ricovero d’urgenza) – devono, infatti,
aggiungersi le violenze non denunciate.

Questo è il quadro politico e sociale nel quale si contestualizza
l’esistenza di tutte le donne in Italia, l’esistenza e a volte la morte: 63
donne e almeno tre bambini (uccisi per punire la madre). Anche a questo
numero impressionante di uccisioni si deve aggiungere il femminicidio
occulto: suicidi, finti incidenti (di cui verrà accertata la vera natura
attraverso le pressioni di parenti, amiche o attiviste politiche), il
ritrovamento delle spoglie abbandonate delle vittime di tratta.

Una delle cause della sottostima delle violenze è da ricercare, in
concreto, nelle pratiche dissuasive verso le vittime attivate dalle forze
dell’ordine, preposte all’accoglimento delle denunce, ma anche, in
generale, nell’approccio della politica alla violenza sessuata.

Per tutto il primo quinquennio degli anni 2000, infatti, il contrasto alle
violenze è stata un’area misconosciuta dalla politica. A tutto l’universo
del femminicidio era culturalmente assegnata una dimensione privata pervasa
da un’idea collettiva radicatasi da tempo incalcolabile, che, pur non
trovando più riscontro nel diritto, radicata rimaneva.

La lettura critica delle relazioni e dei ruoli tradizionali, personale e
politica, di fronte al misconoscimento istituzionale, è stata segnata
profondamente dalla necessità di dimostrare l’esistenza ricorrente della
violenza sessuata. Come è stato in tutta la storia dell’oppressione del
genere femminile: dalla legge d’iniziativa popolare, alle campagne di
denuncia delle sempre nuove connivenze nazionali e internazionali, come
Stop Femminicidio che oggi suggerisce il nome anche a “Stop Feminicide in
Ciudad Juarez”, un Trust che finalmente affronta una delle stragi
indisturbate che si perpetrano a tutt’oggi dal secolo trascorso.

Anche quando ha cominciato ad occuparsene, però, la politica Italiana – con
la complicità di media, lobbies economiche e di interessi di casta sociale,
istituzioni religiose – non ha tenuto nel giusto conto la vera dimensione
del femminicidio, generando leggi sbagliate e politiche residuali, e
perpetuando – ed anzi amplificando! – ruoli, pregiudizi, definizioni.

Infatti, se emerge la denuncia delle violenze familiari, il potere dichiara
l’emergenza degli stupri di strada (perpetrati per lo più da stranieri,
sic!). Quando il movimento antiviolenza mostra la ricorrenza delle violenze
in ogni ambito sociale, il potere “concede” campagne di spot per la
sensibilizzazione, imperniate per lo più su donne “mogli e compagne che
devono prendere coscienza del danno che procurano ai figli quando subiscono
la violenza”. In questo gioco ipocrita, si occulta ora l’una ora l’altra
vittima e, sempre, la gran parte dei delinquenti.

Le vittime sempre invisibili, le più sole e, per questo, di fatto “non
aventi diritto” hanno nomi femminili e tutte le età, discriminate anche
dalle tipologie di intervento: sono le lesbiche e le donne single.*

L’indisponibilità di mezzi e risorse di contrasto, per quanto non abbia mai
generato una vera e propria ‘guerra tra povere’, ha però sicuramente
innescato una discriminazione odiosa, producendo una gerarchia tra le
vittime.

La formazione stentata dei soggetti preposti all’intercettazione delle
violenze, la scarsa ricettività d’accoglienza che ancora privilegia “le
donne coniugate e/o con bambini”, sono il riflesso di una strategia della
negazione finalizzata al mantenimento della prima e indisturbata causa
dell’oppressione femminile: la violenza sessuata.

Gli stereotipi negativi che attribuiscono a lesbiche e single una
diminuzione del ‘valore sociale’, ma anche quelli positivi che le
considerano “salve” dalle violenze familiari, è quanto di più falso e
fuorviante e la loro mancata inclusione nel novero delle vittime di
violenza sessuata, costituisce un silenzioso e pericoloso limite
all’interno della stessa strategia del contrasto alla violenza.

Nei numeri spaventosi del femminicidio 2012 è insito il rischio che le
donne lesbiche e single, non siano nemmeno previste e considerate parte del
fenomeno, mentre la strategia delle dissuasioni istituzionali le colpisce
nel modo odioso di sempre, e per di più dichiarandone l’inesistenza.

Le vittime in tutte le loro identità, singole e collettive di fronte allo
Stato, il 14 giugno, per il diritto di denunciare, per imporre una svolta.