Ci voleva il libro di Michela Marzano{ Volevo essere una farfalla} a farmi ritornare, con rinnovato vigore e convinzione, sul tema del rapporto fra psicanalisi e femminismo già trattato in precedenza.Vorrei farlo, stavolta, prendendo in considerazione un fenomeno recente che ha tutta l’aria di essere parte fondante di un progetto psicanalitico megalomanico-espansionistico in grande stile, finalizzato a un {{agganciamento strategico}}, da parte di un gruppo di psicanalisti “lacaniani”, di relazioni {{neo-fiduciarie}} con alcune realtà del femminismo nazionale – relazioni sino a qualche tempo fa inesistenti per essere state, in passato, bellicosamente consumate.

Credo che su tale fenomeno sia opportuno meditare e mantenere – come donne, come filosofe e teoriche del femminismo di antica e nuova generazione, come psicanaliste che guardano con speranza a una “{{psicanalisi dell’avvenire}}” ispirata, nella teoria come nella pratica, al “{{pensiero della differenza}}” di {{Irigaray}} – uno sguardo attento, un atteggiamento critico, una sana prudenza e persino una salutare diffidenza.

La cautela è d’obbligo trattandosi, nella fattispecie, di un gigantesca operazione di {{marketing}} messa in atto da alcuni psicanalisti “lacaniani”, che fa capo a un programma tutt’altro che marginale, a una “rete associativa” che ha esteso in pochi anni la propria massiccia presenza in 14 regioni italiane e che pare ora fortemente intenzionato a proseguire la sua corsa indirizzando la propria {{s-manìa}} espansionistico-colonizzatrice verso ambiti territoriali più appetitosi e più specificamente caratterizzati: si va da alcuni Luoghi tradizionali di teorizzazione e di pratica politica femminista ispirati al “pensiero della differenza” di Irigaray, alle Associazioni femminili e femministe impegnate, a diverso titolo, contro la violenza e sulle politiche di genere.

Si tratta, a ben vedere, da parte dei promotori di questo commercio d’anime, di tentativi di infiltrazione-penetrazione finalizzati alla conquista, al controllo e alla progressiva annessione di quei territori femminili e femministi da sempre “resistenti” – e per delle buone ragioni – alla psicanalisi, di quei “Luoghi del femminile” per nascita e tradizione, quanto mai ambiti da “curatori” di femmine che sulle donne e sulle loro “patologie” hanno sempre puntato per la costruzione di notorietà e fortuna. Inutile aggiungere che l’evidente aspirazione a stabilire relazioni privilegiate con la rete delle istituzioni tradizionali (scuole, ospedali, comunità terapeutiche, centri sociali, associazioni culturali) obbedisce a una precisa strategia finalizzata alla ricerca di un formidabile contenitore istituzionale a garanzia della realizzazione di detto programma e della sua possibile diffusione.

Che cosa vuole questa psicanalisi dalle donne, dal femminismo, quando, attraverso dei novelli “maestri” – formati a una Scuola antifemmina per eccellenza che ha cacciato {{Irigaray}} “per mancata fedeltà a un solo discorso”- si mostra tanto interessata ai temi di un femminismo da sempre guardato di sbieco, con disprezzo e alterigia, da sempre irriso e/o ignorato e pur tuttavia sfruttato?

Che cosa va cercando {{questa}} psicanalisi – definitivamente cancellata dal vocabolario non senza la responsabilità di certi sedicenti “rivoluzionari”, e ormai declassata al rango di “terapia”- allorchè, in una fase di penuria di richieste di cura, si dà visibilmente da fare per in-{{sediarsi}} in spazi simbolici consolidati, tradizionalmente fondati e abitati da Comunità di donne nate e cresciute a partire dal “pensiero della differenza” di {{Irigaray}}?

Che significato dare alla “mossa” messa in atto da questi psicanalisti “femministi” disposti, pur di assicurarsi una nuova credibilità, a sbattere in prima pagina le donne, proprio nel preciso momento storico in cui le donne, dopo anni di invisibilità, si stanno riappropriando di quella vitalità presente nel movimento femminista degli anni ’70 che ha finito per piegare molte di loro – intenzionate a portare un’{{altra }} psicanalisi “dentro la politica” – a iniziare percorsi che hanno finito per allontanarle dalla politica?

Quali sono le finalità di questa “mossa”? E, quel che più conta, per quale incomprensibile-inconfessabile ragione questa “mossa” – che pure dovrebbe, ragionevolmente, dar da pensare – viene accolta, senza alcuna resistenza, da quelle filosofe femministe che hanno fatto del pensiero di Irigary la loro bandiera e che hanno costruito, su questo pensiero, la loro pratica etica e politica?

Sono più d’uno gli eventi che testimoniano di questa nuovo orizzonte di connivenza fra una psicanalisi reazionaria di vecchio stampo androcentrico, patriarcale, hegheliano, e un femminismo debitore al “pensiero della differenza” e non è facile stabilire se tale complicità sia imputabile a una conoscenza approssimativa e insufficiente dei testi lacaniani o a un irriducibile bisogno di Padri o, com’è più probabile, a entrambe. Ma a facilitare questa spinta in una direzione altrimenti incomprensibile, c’è soprattutto dell’altro.

C’è che non sono mai nati in Italia, ad opera di psicanaliste donne, dei Luoghi simbolici finalizzati alla promozione e alla trasmissione di una psicanalisi “di genere” ispirata al “pensiero delle differenza” di Irigaray. C’è che in Italia l’eredità di Irigaray, completamente ignorata dalle psicanaliste cui era soprattutto rivolta, è stata raccolta dalle filosofe con conseguenze tutt’altro che irrilevanti. C’è che una psicanalisi sessualmente differenziata, una{{ psicanalisi di genere}}, in Italia non esiste essendo le “scuole di formazione” in mano a uomini.

A farci ritrovare la strada, è una scossa. Ci giunge dal libro di {{Michela Marzano}} {Volevo essere una farfalla}, in cui l’autrice – che ha trovato il coraggio di descrivere in dettaglio la sua straziante esperienza anoressica – pur avendo beneficiato della psicanalisi, mostra tuttavia di essere molto bene informata e decisamente critica sulle “dottrine”, sulle parole d’ordine e sugli slogan messi in circolazione e divulgati in questi anni sull’anoressia da qualche sedicente “rivoluzionario” della psicanalisi. Le parole, taglienti, di Marzano e i suoi precisi riferimenti a un certo formulario psicanalitico ossessivamente e ritualmente ripetuto, non lasciano dubbi sullo sventurato psicanalista preso di mira:

{Dicono che {{oggi non esistono più regole}}. Che la nostra epoca è caratterizzata dalla gadgettizzazione della vita e dl culto narcisistico dell’io. Che l’inconscio è in via di sparizione (…).Che siamo invasi dal discorso capitalistico e dal consumismo (…) che tutto è oggetto di godimento…Che si dovrebbe riscoprire il “nome del padre”. Sì, certo, Tutto vero. Ma anche terribilmente falso (…). Fino a quando si tenterà di spiegare l’anoressia utilizzando solo le categorie analitiche tradizionali, non si capirà proprio nulla (…). Sempre meglio le categorie analitiche tradizionali, comunque, che certe nuove teorie “rivoluzionarie” che si stanno diffondendo in questi ultimi anni…il soggetto senza inconscio, la clinica del vuoto, le nuove forme del sintomo…e che più ne ha più ne metta…Fino a far passare le “anoressiche” per delle manipolatrici perverse, che farebbero di tutto per gettare l’altro nella disperazione e diventare la causa della sua angoscia…Allora basta! Basta con i luoghi comuni, le banalità, le generalizzazioni, le ricette “usa e getta” per vendere libri e illudere chi sta male. Basta con questa storia del “corpo feticcio”, del “rifiuto della femminilità”, del “rapporto simbiotico con la madre”…No, il corpo magro non è un segno identificatorio feticizzato. No, l’anoressica non nega l’altro perché sia fatta la volontà dell’io. No, nell’anoressia non ci si ribella all’ideale femminile che la madre avrebbe voluto realizzare. No, non è un modo per angosciare in maniera perversa gli altri, per ricattarli, per far loro del male. Oppure sì, forse, anche, talvolta, } {dipende (…). Ma perché attaccarsi a questo maledetto sintomo e cercare a tutti i costi di far entrare tutte coloro che ne soffrono nello stesso schema? Perché non ascoltare quello che ognuno dice, cerca, rivendica, supplica?}

Basta…basta! – scrive {{Michela Marzano}} – che ringrazio per aver illuminato con uno sguardo diverso, certe teorie e pratiche di cura dell’anoressia di cui i ghetti anoressici, promossi con i gruppi “{{monosintomatici}}, sono stati e sono – se ancora esistono – un tetro, lugubre esemplare. La ringrazio, ancora, e di cuore, per avermi fatta sentire meno sola nell’andare avanti nel mio progetto, per aver trasmesso nuove energie alla mia non più solitaria impresa di costruzione di Luoghi simbolici di formazione – prima che psicanalitica, umana – al cui centro sta ”il pensiero della differenza” di {{Irigaray}} con gli effetti innovativi e decostruttivi che questa nuova centralità comporta sia rispetto alla “dottrina” psicanalitica che alla formazione e alla cura di donne e uomini.

{{Michela Marzano}}, {Volevo essere una farfalla. Come l’anoressia mi ha insegnato a vivere}, Mondadori 2011, pagg. 216, euro 17,50