Mi sono presa qualche giorno. Forse per sedimentare, e comunque per dare un senso compiuto alle sensazioni ambivalenti che ho provato sfilando per le strade di Roma sabato pomeriggio. Da una parte di intensa contentezza per essere lì, io romana che vive a Milano, a manifestare di nuovo con tante donne per le strade della mia città, dall’altra di disagio e in alcuni momenti anche di estraneità.
_ Sapevo che quella manifestazione sarebbe stata grande e bella, l’ho
sentito subito da quando ho letto il primo appello: era arrivato il
momento, bisognava scendere in piazza.

Quello che stava succedendo mi ricordava com’era nata la {{manifestazione del 14 gennaio del 2006 a Milano}}. Già, il 14 gennaio: perché questa gigantesca, {{incomprensibile rimozione}}?

Tante, anche importanti firme del giornalismo e figure significative del movimento femminista l’hanno completamente cancellata. Eppure duecentomila donne erano scese in piazza su contenuti anche molto più “complessi” e avevano trovato una trasversalità senza precedenti.

{{Non è per senso di appartenenza né per autoreferenzialità}}, ma mi sembra strano che si dimentichi, che ci si tolga da sole questa grande risorsa di forza che e’ la coscienza di quel che siamo come movimento delle donne in Italia.

Dunque, quando è arrivata la prima mail di Monica Pepe io, come molte
altre compagne di {{Usciamo dal silenzio}} (non tutte a onor del vero),
abbiamo discusso e aderito con convinzione perche’ questa manifestazione era giusta come la pioggia (che infatti ci ha graziate), ma nelle settimane successive {{ho perso molto del mio entusiasmo quando ho assistito ad una trasformazione progressiva dei contenuti originari}}, fino a scoprire che avevo aderito ad una manifestazione separatista e in primo luogo antisicuritaria.

Dico subito che ho fatto molte manifestazioni di sole donne nella mia vita, e sono stata tra le promotrici di una sezione del PCI (la Teresa Noce) rigorosamente separatista, così come tengo a dire che non ho condiviso l’ondata di pancia che ha fatto seguito all’omicidio di Giovanna Reggiani. _ Ma altrettanto chiaramente so che non erano quelli i contenuti sui quali avevamo scelto di scendere in piazza, e penso che la piattaforma di una manifestazione non si debba mai cambiare in corso d’opera.

Quanto al {{separatismo oggi credo sia solo un segno di debolezza}}
che ci preclude la possibilità di riorientare la cultura e la “testa” di
questo nostro paese in crisi, dei suoi uominiin crisi, in una direzione
diversa.
_ Noi femministe “mature” la forza di stare da sole l’abbiamo già
interiorizzata, le nostre figlie e nipoti se ne sono nutrite fin da
piccole. Credo davvero che il separatismo come strumento abbia fatto il
suo tempo, e che ormai il movimento sia oltre, su una strada di
condivisione con chi, di genere maschile, sa e vuole cimentarsi sul
terreno del cambiamento e della critica ai valori fondanti del patriarcato
e del familismo. Sento invece un gran bisogno di voltarmi e di guardare
avanti.

E qui sorge il problema: adesso come procediamo?
_ {{Preoccupa che il rifiuto di un’interlocuzione con la politica (pure conflittuale dico io}}, come Uds sta facendo da oltre due anni) – che certo ha deluso tutte, ma con la quale non si puo’ non fare i conti – sia stato alla testa di quel corteo.
_ Non espressione di frange isolate ma alla
testa, quella a cui era affidata l’immagine della manifestazione. E non è
stata solo mia l’impressione che ci fosse uno scarto tra l’atmosfera che
si respirava all’inizio e quella del resto del corteo. C’era molta rabbia
dietro gli striscioni di apertura, e confesso che questo mi ha turbato
perché {{non si parlava propriamente il linguaggio del femminismo}}, neanche
di quello più radicale, nemmeno di quello anni ’70 al quale ho partecipato
anch’io.

C’era qualcosa che mi ha fatto riflettere e mi ha allontanato.
_ Qualcosa che {{mi ha rimandato, per affinità nelle forme e nel linguaggio, a quell’estremismo antagonista}} che ormai da qualche anno caratterizza certi momenti di mobilitazione della sinistra, e che è assolutamente trasversale dal punto di vista del genere.
Una rabbia che seppure non si è trasformata in violenza, si è rivolta
contro altre donne(quando più quando meno).

E io, che forse avrei trovato altre modalità di stare e anche di reagire che alcune politiche hanno scelto, per rifiuto di metodi che non ho mai condiviso, mi sono sentita di esprimere la mia solidarietà. Quante, in manifestazione, la pensavano così?
_ Credo molte, a giudicare dalle reazioni che viaggiano nella rete in questi giorni.

Io non considero le contestazioni ne’ divertenti espressioni di giovanile
vitalita’ ne’ episodi in grado di cancellare il senso della giornata. Del
resto le leggi mediatiche sono note a tutte: gli episodi di contestazione,
da che mondo è mondo, fanno la notizia.
_ E tu scompari, o peggio la tua
immagine (tua e delle altre 150mila) ne esce come abbiamo visto. Senza
parlare del fatto che concordare una diretta dovrebbe comportare pure
degli accordi preventivi, e che il diritto di cronaca si definisce diritto
non per caso.

Io considero quello che è stato definito il “parapiglia” di
piazza Navona un elemento che deve preoccupare e far riflettere tutta la
rete delle associazioni femminili e femministe italiane, che richiede {{un
dibattito sulle prospettive, sul futuro del movimento e sulla sua
autonomia}}.

Intanto c’è un problema di metodo e di percorsi decisionali:
l’esperienza di Roma insegna a tutte che le scelte importanti per l’intero
movimento devono essere largamente condivise. Per questo, avendo letto che si sta preparando un’assemblea nazionale per il mese di gennaio, mi permetto di sollevare la questione di una scelta comune a tutte le realtà su tempi, luogo e modalità.
_ Credo che la ragione di questa mia richiesta non abbia bisogno di essere ulteriormente spiegata.

Ci sono poi alcune domande che mi sento di fare a chi sta parlando in queste ore a nome delle manifestanti: questa “rivoluzione” che sentiamo di aver fatto con la grande manifestazione di Roma, serve al movimento per andare in quale direzione?
_ Davvero non interessa a nessuna ragionare su una legge contro la violenza?

Non una legge pur che sia, certo, ma una legge che ci piaccia e che nasca
dal contributo delle donne? E, per toccare un nervo scoperto, siamo
davvero tutte in sintonia quando parliamo di sicurezza? Questo movimento, misurandosi con l’inadeguatezza della politica così com’è oggi, ha comunque qualcosa da dire o deve fermarsi alla protesta? Quale
interlocuzione allora con le donne della politica? E con gli uomini? Che
forza esprimiamo se facciamo vibrare la denuncia e poi non abbiamo nulla da pretendere?
_ Riusciamo davvero a dare efficacia e forza alle nostre
mobilitazioni con l’autoreferenzialità? Ecco, dopo la giusta soddisfazione
dobbiamo avere la maturità di fermarci a pensare a tutto questo.
Ci sarebbero ancora molte cose da dire. Vorrà dire che le dirò nel mio
luogo che è l’assemblea di Usciamo dal silenzio.