Marcella Mariani – linguista – per lunghi anni Presidente dell’associazione il Paese delle Donne

In un bilancio si prevedono due voci: attivo – passivo, nessuna valutazione è possibile se non si mettono a confronto questi due elementi. Ma nel nostro caso non abbiamo a che fare con valori definiti come i numeri, piuttosto con dati impalpabili, raccolti attraverso osservazioni, percezioni, elementi, sia pure accertati, ma che riguardano una realtà varia e composita. Nella questione che affrontiamo si tratta di una sorta di bilancio che arriva da una voce, la mia voce: in definitiva sarà solo un’opinione, per quello che può contare.

Per giustificare preventivamente il mio intervento posso dire però che di quanto parlo mi occupo da oltre trent’anni, una conoscenza sviluppatasi con il femminismo, quel percorso di politica femminile che molte di noi hanno intrapreso e seguito negli anni tanto da ritrovarci ancora qui a discuterne. Per ognuna di noi le esperienze della vita sono state diverse e non sempre aderenti a quell’ideale che volevamo perseguire, ma sono convinta che per nessuna di noi si è trattato di un “episodio”, storicamente datato, come a volte si sente dire da chi vorrebbe cancellare un evento rivoluzionario, sminuirne l’essenza e considerarlo concluso. Direi che si configura come un’esperienza che ci ha cambiate e ci fa essere per sempre donne femministe in qualunque situazione la nostra vita ci faccia vivere. E mi piace sottolineare la parola femminista proprio perché da molti e molte è purtroppo demonizzata.

Poiché mi propongo di circoscrivere la mia riflessione al linguaggio devo premettere che sentii parlare per la prima volta di sessismo della lingua da Alma Sabatini, negli anni ottanta, quando lei, tornata dal Texas, dove era stata invitata da gruppi femministi, ci raccontò di lavori sul linguaggio che quelle donne stavano conducendo in proposito. Da allora ad oggi ho sviluppato un orecchio simile, credo, a quello di chi si dedica alla musica, in grado cioè di afferrare subito la stonatura, e, nel nostro caso, non solo grammaticale.

Iniziammo anche noi a riflettere sul sessismo della lingua italiana, una lingua che non ci rappresentava anzi ci escludeva, ci oscurava e la reazione fu tale da convincere parte di noi che si doveva fare qualcosa, uno studio, una ricerca che potesse dimostrare concretamente che la discriminazione delle donne partiva di lì o comunque che il linguaggio parlato, scritto o figurato ne era parte fondante.

Prese forma un progetto di ricerca che, malgrado le tante resistenze incontrate e grazie al temperamento battagliero di Alma Sabatini, venne infine accolto dalla Presidenza del Consiglio (grazie al sostegno dell’allora presidente della Commissione Nazionale per le Pari Opportunità on. Elena Marinucci), fu realizzato e si concluse con la pubblicazione del testo ormai noto Il sessismo della lingua italiana (1987).

A partire dall’uscita del libro avemmo la certezza di aver toccato un nervo scoperto. L’indifferenza sarebbe stata deludente ma l’aggressività che si sollevò, soprattutto attraverso la stampa, ci sembrò al momento spropositata, si scomodarono firme note del giornalismo, intellettuali, tutti a dire la loro – per lo più contro – con accuse immotivate, deliranti che sostenevano che il nostro fosse un tentativo di profanare la “sacralità” della lingua italiana. Ma il fatto che tutti ne parlassero ci rese sempre più sicure che stavamo percorrendo una strada giusta e che, per la sua complessità, l’argomento avrebbe avuto bisogno di chiarimenti, messe a punto, soprattutto avrebbe dovuto eliminare ogni sospetto che si volessero intaccare le fondamenta della lingua italiana: semplicemente si pretendeva di rientrare in una normalità linguistica che facesse riemergere il soggetto femminile.  Inutile entrare nel dettaglio che forse è ormai scontato per chiunque abbia avuto la pazienza e l’interesse ad approfondire la questione, mi preme dire ciò che sta emergendo oggi dopo tutti questi lunghi anni di “lotta” in cui abbiamo perseverato per non far cadere nel nulla la questione, passato il polverone iniziale.

Questo breve escursus mi sembrava necessario per ricordare da dove siamo partite, fronteggiando le fibrillazioni dei vari Eco, De Mauro, Beniamino Placido e ancora, ancora.

 

Torniamo dunque al quesito iniziale sulle voci di attivo e passivo.

E’ sotto gli occhi di tutte, di tutti, che dal punto di vista grammaticale si sono raggiunti alcuni risultati circoscritti alla nominazione di alcuni ruoli: sindaca, assessora, ministra, poliziotta e poco altro e la presenza dell’articolo di genere femminile per termini come la giudice (la pretora, la questora provocano ancora qualche singhiozzo). C’è da precisare però che questa ristretta rosa di termini resta ancora estranea a molti, molte parlanti. E’ comprensibile che si possano avere sensibilità diverse, tempi diversi, ma ciò che è più difficile da accettare è la sordità o incuria da parte di chi maggiormente dovrebbe rendere norma ciò che ancora passa per eccezione: penso a chi si occupa di comunicazione, che ha responsabilità culturali nell’ambito dei mass media e non raccoglie, diciamo, il segnale dei tempi. Ignorando anche le sollecitazioni venute dalla Commissione Europea con una lettera inviata ai Paesi membri, oltre dieci anni fa, che invitava a porre attenzione ed adeguare il linguaggio ai soggetti femminili.

E non si può non gettare uno sguardo sul mondo dei social ormai faccia di uno specchio del reale: facebook, ad esempio che accoglie molte voci, le più diverse, permette di registrare molte reazioni riguardo al linguaggio sessuato che io ed altre amiche tenacemente proponiamo: le voci, in prevalenza maschili, ma non solo, escludendo alcune che aderiscono e condividono, sono polemiche, ironiche, a volte rabbiose, spesso segnalano una sorta di ignoranza presuntuosa, a volte pretestuosa. Lo specchio, dicevo, di una realtà che tradisce un conflitto latente: so che c’è chi si rifiuta di usare questo termine, ma io lo uso, conflitto di potere sotteso anche alla parola, un dato che non si può negare. Esiste un rifiuto abbastanza diffuso ad accettare un processo di trasformazione sociale in crescita, che vede protagonista anche il rapporto tra i generi e che sta mutando visibilment la posizione della donna. E come manifestarlo se non con la forma primaria di espressione, il linguaggio, lo strumento la cui forza significante e simbolica è indiscussa, in ogni campo?   A questo proposito voglio ricordare che già cinque anni fa, secondo i dati riportati dal Corriere della Sera, erano entrati nella lingua italiana 6000 anglismi, senza che il fenomeno suscitasse stupore o scandalo. Perché allora c’è chi reagisce negativamente alla parola pretora, adducendo il motivo che “suona male”. Come mai?

Il discorso della resistenza a  sessuare il linguaggio si fa più deludente quando a mostrarla sono le donne, tanto più se “di potere”, pur tenendo conto di alcuni fattori comuni a tutti e tutte che riguardano la consuetudine, il radicamento, l’abitudine, l’emulazione che possono spiegare un ritardo da condizionamento. L’ipotesi di assumere forme espressive legate all’identità femminile può anche far prevedere     reazioni a volte esasperate, ma dovrebbe essere messa in conto e affrontata da  chi si trova in una posizione forte: ma spesso non è così, di conseguenza non si può non pensare ad una presenza importante di insicurezza e carenza di autostima. A testimoniare quanto sostengo, alcuni giorni fa ho letto un articolo che presentava una direttrice d’orchestra ( Beatrice Venezi, la più giovane direttrice d’orchestra italiana)  titolando: “Chiamatemi maestro!”, anche direttrice le sembrava inaccettabile. Il fatto si commenta da sé, ma un’ ulteriore lettura dello stesso ci segnala che l’anomalia di tale presa di posizione è risultata evidente persino al giornale tanto da farne il titolo e con punto esclamativo. Diciamo allora che qualcosa si sta muovendo.

In numerose, ancora troppe trasmissioni televisive ci rattrista riscontrare il persistere dell’uso del maschile, anche quando immotivato: una nota esponente politica appena ieri rivendicava, in un dibattito, non so quale diritto “come cittadino e come politico”, ripetendolo con enfasi più volte. E non è un caso isolato. Comunque a questo proposito nelle mie rilevazioni costanti (deformazione professionale, ormai) ho potuto notare che c’è una dissociazione più accentuata da parte di uomini e donne, che si collocano nell’ambito della conservazione, della tradizione (un giro di parole, questo, per non citare etichette partitiche inopportune in questo contesto).

Scrive la filosofa Michela Marzano che “si ha l’impressione che le donne non riescano a liberarsi dalle norme e ingiunzioni patriarcali…(come se) si fossero abituate alla loro condizione di asservimento…..speriamo che prima o poi  se ne rendano conto e la smettano di essere le prime a riprodurre senza sosta gli stereotipi di genere…” E per chiudere questa parte in cui ho voluto sottolineare la necessità dell’impegno da parte delle donne stesse ricordo quanto scriveva Orwell : mai arrendersi alle parole.

 

Superando il discorso grammaticale possiamo spostarci sul versante delle dissimmetrie semantiche, stereotipi, metafore di stampo sessista. Occorre tirare in causa innanzi tutto il linguaggio pubblico, quello giudiziario in particolare che fa ancora accapponare la pelle: basta leggere i testi degli interrogatori che le vittime di stupro devono subire per gridare veramente allo scandalo (non ci dilunghiamo riportando esempi perché già segnalati da vari giornali). Lo stereotipo della donna colpevole, tentatrice prevarica il buon gusto, il buon senso e ci riconduce sempre…. a quella impudica di Eva e la sua mela.

Nella stampa e televisione se parliamo di stereotipi il bilancio si può dire leggermente migliorato, ma con picchi di pericolose regressioni che si stanno registrando ultimamente.  Alcuni anni fa ad un mio articolo detti il titolo “Signore e Signori” e la docente di sociolinguistica con cui collaboravo e che me lo aveva richiesto per una pubblicazione, mi domandò il perché di quel titolo ed allora risposi come anche   oggi mi verrebbe spontaneo dire, cioè che la prima conquista ottenuta è l’assunzione della modalità attenta e rigorosa dell’uso della formula di signore e signori, ragazze e ragazzi, uomini e donne e così via. Neanche il più recalcitrante giornalista tralascia mai di nominare all’occorrenza entrambi i generi. Ironia a parte, però, come abbiamo accennato precedentemente, qualche passo in avanti  si è fatto anche dal punto di vista semantico, parole e frasi pesanti come quelle riportate negli esempi contenuti nel libro il Sessismo… (per chi li avesse letti)  sono più rari, tuttavia non mancano anche oggi cadute di stile quando, ad esempio, per parlare di due soggetti, poniamo politici, che rappresentano un uomo e una donna  si indulge ancora per la donna, e solo per lei, sull’abbigliamento, il capello, il sorriso, l’andatura (chi non ricorda le paginate su Elena Boschi al suo insediamento).

E come non pensare alla campagna denigratoria contro Laura Boldrini, alle parole irripetibili o alla bambola gonfiabile affiancatale proprio da un aspirante a cariche governative?   Per gli uomini ci si limita ad un accenno alle loro competenze lavorative.

Mi disturba sentire ancora parlare di Diritti dell’UOMO e non di diritti umani, come trovo insopportabile l’ espressione dei politici (voce che include uomini e donne) quando sostengono il loro dovere di operare “come un bravo padre di famiglia”. E dai padri alle mamme: è di questi giorni l’episodio avvenuto al Festival di Sanremo dove è stato approntato un …teatrino di donne chiamate sul palco dalla conduttrice, per l’occasione in abitino rosa, per inneggiare a chi?….alle donne? no, alle mamme: un bellissimo ruolo, non lo nego, ma riduttivo davvero se presentato come unico merito femminile cui inneggiare (la conduttrice, voglio credere, sarà stata coinvolta da una regia che ha deciso per lei, in ogni caso il condizionamento mentale è sempre quello e diffuso).

Anacronismi del genere se ne trovano ancora e tanti e non si può non pensare che la lentezza nel cambiamento in parte sia dovuta a secoli di dominanza maschile e visione del mondo con occhio maschile/universale: la lingua ne è corresponsabile e indubbiamente gli stereotipi e gli automatismi linguistici sono conseguenti.

Ma a questo punto, per non rendere sterile questa breve e incompleta panoramica sul presente, c’è da porsi la domanda: che fare? chi chiamare in causa? e qui torno a citare i mezzi di comunicazione, la televisione in particolare  diventata inevitabilmente agenzia educativa anch’essa: colpevole di essere latitante, ferma ad un pensiero vecchio e incolto. Ci si domanda: ma i /le giornalisti/e sono esenti da corsi di formazione e di aggiornamento? La loro omologazione potrebbe essere rimossa o vince su tutto la pigrizia-ozio mentale? O un grande fratello  pilota dall’ alto?

Sulla voce pubblicità ci sarebbe tanto da dire e non di buono perché a mio avviso dopo un periodo in cui si era avvertita più attenzione a non sfruttare il corpo della donna, dopo campagne e denunce contro lo sfruttamento del corpo della donna, ora, approfittando di questa fase di latenza, tornano a circolare di nuovo raffigurazioni femminili che fanno rabbrividire. Un segno dei tempi, sì, come un segno dei tempi mi sembra il fatto che la voce di protesta da parte delle donne non si fa più sentire come nel passato con sufficiente grinta.

La scuola è un capitolo troppo vasto per aprirlo perché investe l’operato del corpo insegnante, ma anche i libri di testo da rimettere ancora in discussione, come tentammo di fare anni e anni fa.

Come appare evidente i punti da trattare sarebbero tanti, io li ho solo sfiorati. Che dire allora per rispondere al proponimento di bilancio che intendevo fare? Anche qui sfioro appena il tema concludendo che di negativo ancora ne denunciamo parecchio ma il positivo che si può intravvedere attesta che senz’altro la tenacia premia  e che non tutte le donne hanno smesso di battersi. Certamente ci sarebbe da ampliare la riflessione e capire meglio non solo dove stiamo andando noi con il nostro impegno, ma ancor prima dove sta andando il Paese, sempre più in confusione, come la lingua che lo rappresenta.

A chi ha avuto la pazienza di leggere queste righe, che altro non sono che un parziale accenno rispetto a quanto si potrebbe rimarcare oggi , faccio presente che ho cercato di evidenziare alcune voci tra le tante che segnano nel bene e nel male l’aspetto cruciale della “battaglia” per un linguaggio sessuato, un discorso che non si è mai fermato ma che andrebbe ripreso e sviluppato punto per punto: resistenza culturale, resistenza delle donne, stereotipi e luoghi comuni persistenti, responsabilità dei mezzi di comunicazione, l’oscuro mondo della pubblicità. Concludo, quindi, lasciando più che altro  interrogativi e l’onere delle risposte soprattutto alle nuove generazioni contando sulla loro curiosità di allungare lo sguardo anche oltre il nostro Paese per sondare la diversità delle politiche linguistiche in corso.

Questo lavoro è stato preparato per l’incontro che si è tenuto a Ferrara il 23-24 marzo 2018. Un incontro che partendo dal lavoro di riviste e case editrici delle donne ha analizzato i percorsi dei femminismi di ieri e di oggi cercando di vedere in quale futuro pratiche e terie elaborate dal movimento si potranno dipanare.