In Nigeria dopo cinque anni dal loro rapimento da parte dai miliziani di Boko Haram nessuno ha notizie di 112 studentesse rapite a Chibok, nel nord est della Nigeria. E solo le famiglie, soprattutto le madri e le nonne, continuano a chiedere di cercarle e liberarle. Il 14 aprile 2014 una squadra di uomini armati è entrata nella residenza per studentesse del liceo di Chibok, erano i giorni degli esami per il diploma. 276 ragazze tra i 12 e i 17 anni sono state costrette con la forza a salire su camion che si sono dileguati nella savana. 57 ragazze sono riuscite a scappare lanciandosi dai mezzi e nascondendosi tra la vegetazione. Altre 107 sono state liberate nel corso di trattative con gruppi di jihadisti, per denaro o scambio di prigionieri dell’esercito nigeriano. Al momento del rapimento il mondo si è commosso, poi l’attenzione è sfumata e nessuno, nemmeno le autorità nigeriane, sa cosa sia successo alle 112 prigioniere: stuprate, uccise dalla fame e da malattie, morte sotto i bombardamenti? Alcuni video propagandistici di Boko Haram del gennaio 2018 mostrano 14 ragazze (che si dichiarano provenienti da Chibok) con bambini in braccio, che dichiarano di non voler tornare a casa e ringraziano i loro ‘mariti’. Nei piccoli villaggi di provenienza delle ragazze rapite il loro ricordo e la speranza di rivederle permangono, mentre nelle grandi città sbiadiscono i manifesti affissi con i loro volti. Pochi ricordano lo slogan lanciato a suo tempo anche da Michelle Obama: “ridateci le nostre figlie”. In questi giorni l’UNICEF ricorda che più di mille tra bambine e bambini sono stati rapiti dai jihadisti dal 2013. Diecimila ragazzini, alcuni addirittura di cinque anni sono nelle mani del gruppo armato: non si sa se sono morti, fuggiti in qualche modo o ridotti a bambini-soldato. In ogni caso, nessuno li cerca davvero In Nigeria in dieci anni di scontri tra esercito e Boko Haram si contano almeno 27.000 morti civili e oltre due milioni di sfollati che si sono rifugiati nei paesi vicini: Niger, Ciad, Camerun. Molti ragazzi che vediamo davanti ai nostri supermercati parlano i dialetti di quei paesi. Non li hanno dimenticati durante la traversata del deserto e del Mediterraneo. I loro carnefici, i jihadisti, sono rimasti a casa.

MEDITERRANEA newsletter UDI Catania a cura carlapecis@tiscali.it