Dopo aver votato ieri per il Centrosinistra, cioè per quelle formazioni politiche che hanno , in qualche modo, segnato la mia partecipazione all’impegno civile, questa mattina dopo i risultati deludenti, mi sono chiesta  quale potrà essere il mio atteggiamento domani , dopodomani e nei giorni a seguire. Non mi sono mai iscritta a nessun partito ne partecipato a competizioni elettorali convinta, anzi, profondamente convinta, che chi lavora nell’informazione dovrebbe avere penna o tastiera libera da ogni vincolo.

Questo però non significa non prendere posizione, non leggere i fenomeni politici,  non decodificare i poteri economici, non denunciare azioni criminali o campagne culturali xenofobe o razziste.  Di una cosa mi sono convinta, partendo proprio dalla mia esperienza nel movimento delle donne. Non si può pensare di ingabbiare, in partiti, la forza  di movimenti, e non mi riferisco solo a quelli femministi, ma anche a quelli sindacali, pacifisti, antinucleari, ambientalisti, quelli nati contro mafie e criminalità… Perché ?  perché movimenti e partiti o organizzazioni politiche con fini istituzionali hanno, per loro natura, linguaggi diversi.

I primi si  esprimono  attraverso la sperimentazione di nuove idee, comportamenti, linguaggi o forme organizzative  che devono verificare ogni volta, proprio perché l’invenzione è continua. I secondi essendo parte fondante del sistema istituzionale, hanno a che fare con linguaggi, comportamenti, tempi e forme organizzative diverse. Per  loro natura sono  più lenti, meno fluidi, più solidi, meno creativi. Spesso il rapporto, tra queste due forme di partecipazione alla vita civile di un paese, è un rapporto conflittuale che, per fortuna,  assomiglia più ad una contesa ginnica  che a uno scontro bellico. Così,  questi due soggetti trovano, nel confronto-scontro, nuovi input da gestire secondo le proprie modalità e i propri tempi.

Ci sono voluti 20 anni per la  legge contro la violenza alle donne. Una vittoria, anche se ottenuta al rallentatore. Nel frattempo,  il movimento ha dovuto, con grande sforza, continuare a mantenere in piedi i Centri antiviolenza e costruire nuove alleanze per denunciare violenze fino ad ora taciute in alcuni posti di lavoro come in quello dello spettacolo. O trovando alleanze con uomini civili inorriditi dagli aumenti dei femminicidi.

Dire se è meglio l’una forma o l’altra (movimento o partito)  non mi sembra il caso. Ogni singola persona può decidere di volta in volta che fare senza essere demonizzata. Quello che mi sembra non opportuno è trasformare i movimenti in partiti o in organizzazioni proiettate nella contesa parlamentare.

Questo problema fu più volte affrontato nella storia del movimento delle donne. Ma, ogni volta fu respinta l’ipotesi di un partito delle donne.  Per fortuna però non mancarono le femministe, singole donne o piccoli gruppi di donne, che hanno voluto cimentarsi nelle istituzioni, aprendo dei varchi per un più proficuo  confronto con le tematiche proposte dal movimento.  Diciamo che la forza dei movimenti sta nella loro capacità di cambiare i comportamenti culturali delle persone, di costruire una coscienza civica,  di modificare l’opinione pubblica nella concretezza delle relazioni. Qui devo aprire una parentesi per sottolineare il ruolo che i media possono avere nell’agire da moltiplicatore o da silenziatore delle tematiche, dei linguaggi, degli obbiettivi proposti dai movimenti.  Lavorare quindi nell’informazione comporta delle responsabilità da non sottovalutare. perché ad esempio non potenziare una informazione su fatti positivi e non sempre, spesso in modo osessivo, sul negativo.

Un esempio per tutti. Sulla violenza si puntano i riflettori sul caso, sul dolore, sulla paura…quasi mai sul lavoro svolto dai Centri antiviolenza per cambiare le cose.

Ma torniamo a queste elezioni: la vittoria, del resto prevista dai sondaggi, di lega e 5 stelle mette in evidenza un rapporto molto stretto tra forme di organizzazioni con obbiettivo parlamentare  (mi è difficile parlare di partiti quando le stesse si autodefiniscono movimento) e opinione pubblica formata  non tanto da una partecipazione attiva ad attività sociali, culturali o di volontariato,  ma principalmente da due  input.

Quello mediatico atto ad alimentare paure,  sdegni, incazzature, aggressività, violenza… insomma a proporre una cultura non certo riflessiva sui nuovi fenomeni dell’oggi.

E quello che radica in ogni persona quanto, trovandosi difronte alle difficoltà ( occupazione, casa, servizi, stranieri…) dà voce alla propria pancia o mette in atto parole e azioni capaci solo per difendere i propri interessi individuali o corporativi, dimenticando la salvaguardia del bene comune.

Se i movimenti sono realtà concrete, corpi pensanti, materia tangibile, l’opinione pubblica è pura energia che se però viene captata da un soggetto politico, questo, incorporandola,  se ne alimenta, impoverendo i soggetti che l’hanno manifestata. Un cortocircuito che depotenzia la partecipazione e il protagonismo delle persone, alimento indispensabile per una sana democrazia.