In adesione al Comitato 602230 che fa il punto sulla Parità, l’Associazione Leadership & Empowerment Femminile (Alef-Aps), ha organizzato il meeting Donne. Potere. Denaro. (28 c.m.) “…in onore di Rosanna Oliva De Conciliis (fondatrice e presidente della Rete per la Parità, Cavaliere di Gran Croce della Repubblica Italiana), nel 60mo della sentenza da lei ottenuta, che aprì alle donne le carriere negli Uffici Pubblici (Corte Costituzionale, 1960)” come ha sottolineato, in apertura, Gabriella Anselmi (Presidente Alef)“….e in onore della vittoria ottenuta dall’avvocata Anne Nègre (University Women of Europe, Consiglio d’Europa, Presidente UWE) nell’azione collettiva contro 15 Paesi UE, compresa l’Italia, per gravi violazioni della parità.”

Il Consiglio d’Europa si occupa (dal 1995) dei “reclami positivi” su gravi violazioni degli Stati membri, anche di quelli inerenti la parità (dal 2011). Composto dal Comitato dei Ministri, Assemblea parlamentare (a nomine nazionali), Congresso e vari organismi locali e regionali, il Consiglio d’Europa s’avvale di meccanismi di controllo (es. Commissione di vigilanza, 40 rappresentanti), per monitorare la situazione de iure e de facto.

Il reclamo avanzato da Anne Nègre in nome dell’University Women of Europe e di una vasta platea di singole, associazioni ed altri enti, anche sindacali, ha riguardato 15 paesi (Belgio, Bulgaria, Croazia, Cipro, Repubbliche Ceche, Finlandia, Francia, Grecia, Irlanda, Italia, Portogallo, Paesi Bassi, Slovenia, Svezia e Norvegia) sulla mancata risposta sulla parità di retribuzione per lavori uguali e simili, e la sottorappresentanza delle donne in posizione di vertice.

Superate 12 contestazioni d’ammissibilità del reclamo (tranne Francia, Portogallo e Svezia), Anne Nègre ne ha ottenuto la leicità (4 luglio 2020), per poi vincere contro 14 Stati (la Svezia è stata esclusa dalla causa), Italia compresa, la cui sentenza recita: non esistono problemi di riconoscimento e di applicazione formale rispetto a: diritto; parità di retribuzione;accesso a rimedi efficaci; parità negli organismi. Esistono invece gravi violazioni sulla trasparenza e la raccolta di dati statistici.

Al meeting è intervenuta Maria Cecilia Guerra (Sottosegretaria al Ministero dell’Economia e delle Finanze, nei governi Conte II e Draghi; già con incarichi nel governo Letta inerenti il Lavoro e le P.O.).

Tra i temi affrontati: le tensioni e le discriminazioni relative al lavoro femminile; la decontribuzione (che crea un’ulteriore segmentazione sul mercato del lavoro e rende possibile occupare specialmente le donne in segmenti del mercato che sopravvivono solo se pagano molto poco la manodopera, quindi già segmenti con lavoro precario e sottopagato che si mantengono anche con la decontribuzione); il non senso di parlare, anche nei documenti ufficiali, di inclusione riferendosi alle donne (più della metà della popolazione) e che sottende molte politiche, “anche amiche” rivolte alle donne.

“Noi siamo tutte stanche di fare vedere un’evidenza schiacciante: il gap tra uomo e donna diventa particolarmente grande, per le donne, in età fertile; diventa ed è enorme per quelle che hanno figli/e, specialmente in età scolare, rispetto ad altre, senza figli/e, nella stessa fascia d’età; diventa enorme tra Nord e Sud, chiaramente imputabile anche alla mancata valorizzazione del lavoro di cura – inteso non solo verso i/le più fragili ma come mantenimento in salute della forza lavoro – che esplode in particolare in quelle realtà in cui non c’è nessun tipo di sostegno, es. asili nido o altri strumenti di sostegno.” Ha anche affrontato lo smart working: “Noi economisti ci saremmo aspettati, secondo gli studi, che avrebbe potuto comportare una rottura del modello imperante, aiutando a cambiare i ruoli in famiglia perché trovandosi nello stesso ambiente, stretti nella stessa dimensione domestica, la condivisione del lavoro, evidente agli occhi di tutti e con meno scuse, sarebbe stato significativo per attivare processi positivi, per le donne, come altri momenti di fratture della storia, hanno fatto, poi diventati irreversibili. Ma le cose non stanno andando così: una recente indagine dell’Inps dice che le donne sono meno propense a prolungare lo smart working perché gli elementi negativi sottolineati superano quelli positivi (es. la perdita di confine tra vita privata e vita lavorativa); perciò uno strumento raccontato come modalità di lavoro ha fatto ancora più esplodere le difficoltà. Un secondo studio di riferimento al periodo del lockdown è stato che le donne dedicano un numero di ore al lavoro domestico superiore rispetto al partner sia prima che durante la pandemia.

Gli uomini, sia lavorino da casa che fuori casa, non hanno cambiato i ruoli all’interno della famiglia. Inoltre le donne hanno maggiori preoccupazioni, rispetto allo smart working di guadagnare meno e di perdere il lavoro.(…) si chiede alle donne di fare le maghe e cioè, nella stessa unità di tempo, essere impegnate al computer, efficienti, valutate sui risultati, e svolgere il lavoro di cura.”

Ricordiamo che la registrazione del meeting e altro materiale inerente saranno pubblicati  Sito dell’ALEF (https://alef.blog.simply.site)


A seguire: intervento di Linda Laura Sabbadini (Direttora dell’Istat, Presidente Women 20), intitolato: “Col Recovery cancelliamo il gender gap.

Mi soffermo su un aspetto che ha caratterizzato questi ultimi giorni, avendo già Maria Cecilia Guerra raccontato molti aspetti del lavoro delle donne in questo Paese.

Noi abbiamo visto come sia iniziato, nel nostro Paese, un grande progetto di modernizzazione, un piano di ripresa e resilienza molto importante, specie per il momento critico. Questo forte investimento su molti fronti può far fare all’Italia un balzo in avanti. Però una riflessione va fatta rispetto al disegno di questo piano. Ci siamo trovate di fronte a una fortissima resistenza culturale – profonda espressione di una cultura presente nel nostro Paese – nel capire che sia le politiche sociali quanto l’obiettivo dell’occupazione femminile, della parità di genere, siano elementi strategici per il balzo in avanti del Paese. Questa coscienza viene autoproclamata ma concretamente non si traduce in un adeguato investimento.

Questa è una considerazione amara, perché si poteva fare uno sforzo in più, un investimento in più. Siamo arrivati a investire fino a 238 miliardi, mettendo tutto insieme, per questo grande Piano però non siamo riusciti – dopo il Conte II che aveva un po’ migliorato la situazione per esempio dei servizi per l’infanzia – ad andare oltre, anzi non è chiaro quanto andrà a finire veramente ai nidi perché se c’è una cosa su cui c’è poca trasparenza è questa! Prima si è parlato di 4,7 miliardi per tutti i nidi – si è detto di 228.000 posti, poi questi posti sono scesi, nel Piano, a 152.000 – e il resto per la scuola per l’infanzia e altri servizi alla famiglia… che non si capisce quali siano! Nell’ultima versione, questo fatidico 228.000 è sempre la somma di nidi e servizi per l’infanzia, rimanendo incerto il numero di nidi. Fossero anche tutti i 228.000, staremmo allo stesso punto del Conte II.

Di fatto, nonostante la pressione della società civile sul fronte dell’infanzia, delle donne, delle disuguaglianze… su tutti i fronti in cui ci siano state richieste o di qualcosa in più o di qualcosa in meno…non si è avuta nessuna risposta. Questo è un problema perché c’è una resistenza culturale profonda su questi aspetti, che sono strategici. Ditemi se non è strategico, nel Next Generation, l’investimento sui nidi: in primis, quello, è un diritto dei/delle bimb*, prima ancora di essere un elemento di aiuto per le madri.

Le ricerche sia in Italia – su cui ha molto lavorato Daniela Del Boca – e internazionali, dimostrano che l’investimento sui servizi per l’infanzia permette ai/alle bimb* un balzo che, senza, non si fa. Sono e rimangono bimb* svantaggiat*. (…) Solo le famiglie più ricche si rivolgono a nidi privati, che sono circa la metà… enon sappiamo neppure quanti saranno i nidi pubblici e quelli privati (a usufruirne)…è gravissimo!

Il Presidente del Consiglio ci dice che si arriverà a quota 33% parlandone come di un grande risultato quando si tratta di un obiettivo europeo del 2010, perciò noi, undici anni dopo, ci diamo quell’obiettivo per il 2026 e ci sentiamo anche dire che è un grandissimo risultato! Siamo veramente mess* male.

Il problema vero è che non si sa neppure quanti di questi nidi saranno “pubblici” e, se non lo saranno, chi ci andrà? Chi ci sta andando adesso! figli/e di persone che non versano in gravi difficoltà economiche e si possono permettere di pagare una quota.

Nella stessa legge, si prevede anche un sostegno a chi paga queste quote. Allora mi dico che, probabilmente, l’obiettivo è proprio questo: far crescere la quota privata dei nidi e non fare crescere il diritto dei bambini e delle bambine ai nidi. Questa è una cosa che ritengo sbagliata.

Un secondo elemento incide sull’alleggerimento del lavoro di cura ed è la cura di anzian*, anche non autosufficienti; l’attuale legge n. 328/2000, non è mai stata applicata. È una cosa rilevante, nel Recovery, l’annunciata riforma della non autosufficienza… ma è possibile che sempre su questo tipo di riforme ci dobbiamo trovare davanti al fatto che debbano essere fatte a costo zero?

È vero che nella legge ci sono fondi che riguardano la domiciliarizzazione della cura – che avevo salutato positivamente nel discorso di Draghi, quando ne aveva fatto l’introduzione – ma quello è un ambito sanitario e noi non abbiamo bisogno di avanzare solo in termini sanitari! Oppure, si fa perno su una parte degli investimenti che si utilizzeranno nel terzo destinato all’integrazione sanitaria? Lì, però, c’è un problema di governance: chi guiderà tutto ciò? Andrà a finire tutto in mano alle Usl o a chi e in che altro modo? Siamo sempre lì: il discorso delle infrastrutture sociali diventa una redistribuzione di fondi all’interno di queste. Abbiamo investito moltissimo in transizione ecologica, infrastrutture, digitalizzazione. Non dico che non si dovesse fare, perché il Paese deve fare un balzo in avanti ma, poiché ai 190 miliardi s’è aggiunto un extra di30 miliardi, una parte dell’extra avrebbe potuto essere destinata anche a questi aspetti del sociale… e non c’è un euro…: altro che resistenza culturale!

Vedo che neanche sull’imprenditoria femminile, dove sono stati stanziati 400 milioni, non c’è un euro in più rispetto al Conte II… per favore, almeno non si faccia la retorica della grande svolta rispetto alle donne! Diciamo che questo è un grande progetto per il Paese ma che non abbiamo nessuna garanzia che ci faccia fare grande balzo in avanti rispetto alla situazione delle donne che, come sappiamo, è molto arretrata. Ormai, per tasso di occupazione femminile delle giovani dai 25 ai 34 anni, noi siamo gli ultimi in Europa. Per tasso di occupazione femminile complessivo, della media generale, fino ai64 anni, siamo penultimi, ultima la Grecia.Non stiamo perciò neanche al 50%; oscilliamo tra il 48 e il 49%…la Germania ha superato il 70%, la Francia tocca il 66/67%…nel nostro Paese si doveva arrivare al 60% nel 2010, con gli obiettivi di Lisbona!

Oggi, neanche in Lombardia si arriva al 70%! Non ci nascondiamo dietro il problema al Sud. C’è un gravissimo problema al Sud e fortunatamente questo Piano mette cospicue risorse sul Sud, ma per quanto riguarda l’occupazione femminile, solo Trento, Bolzano, la Val d’Aosta e l’Emilia Romagna toccano il60%, non ci arrivano neppure il Veneto, la Lombardia e il Piemonte!

Il problema è generale e riguarda tipi di lavori che sono più precari, sommersi, irregolari, part-time involontario, soprattutto lavori più vulnerabili.

La Ministra parlava del gender gap e sappiamo che uno dei principali problemi del gender gap nel nostro Paese non è soltanto la questione che venga legalmente data la stessa retribuzione a uomini e donne, a parità di qualifica e di lavoro, che pure sarebbe un passo avanti, ma il fatto che il percorso lavorativo e di carriera delle donne è più frastagliato, con maggiore part-time involontario.

Con lo stesso titolo di studio, nello stesso settore,una ragazza, rispetto a un ragazzo, cumula svantaggi nell’arco degli anni… con figli/e che arrivano, con l’interruzione del lavoro dopo la maternità (al 20%), con un rientro lavorativo in cui si preferisce il part-time perché altrimenti non ce la fa. La differenza – nella retribuzione negli avanzamenti di carriera – è eclatante e le donne arrivano alla pensione con un 40/45% di meno, essendo la pensione il punto di arrivo di tutti gli svantaggi cumulati.

Il problema vero, la sfida, è continuare a fare pressione, poiché il Recovery non ha dato risposte sulle infrastrutture sociali…pur trattandosi di una cosa cruciale.

Infrastrutture sociali significa anche occupazione strutturale e non solo occupazione a tempo determinato;bisogna recuperare altre forme, imboccare altre strade e mettersi in testa che non si può mollare, non si può abbassare la guardia.

Se non vanno avanti, come bene ha detto Maria Cecilia Guerra, i diritti delle donne” – e le donne sono più della metà del Paese, non un soggetto svantaggiato! – se non vanno avanti i/le bambin*, se non vanno avanti gli/le anzian*… non c’è nessun balzo in avanti del Paese.

Se si fosse alleggerito il carico di lavoro sulle donne facendo crescere le infrastrutture sociali, i nidi, l’assistenza ai/alle più fragili e disabili, si sarebbero ridotte le disuguaglianze tra anziani, tra disabili, tra bambin*; si sarebbe anche ridotta la povertàcon l’entrata di un secondo reddito perché nelle infrastrutture sociali, per più di due terzi, ci lavorano le donne eci saremmo trovate in ben altra situazione.

È chiaro che sul lungo periodo la situazione potrà migliorarsi. Chiedo a Maria Ceciliase ci sia ancora un margine per ridefinire la finalizzazione dei famosi 30 miliardi extra, perché ciò che colpisce è che in quella somma ci siano tutte infrastrutture, tecnologia e transizione ecologica e anche un pezzetto che riguarda la sanità… ma per il resto, sul sociale, non c’è niente. Si potrebbero ancora recuperare 10/15 miliardi da mettere sul fronte sociale? È stato già varato dal Consiglio dei Ministri perciò si deve applicare com’è, dovendo passare al vaglio dell’Europa? Ci sono margini d’intervento, facendo pressione?

Risposta di Maria Cecilia Guerra: Una bella domanda, la risposta è No. Il Piano complessivo, anche se formalmente diviso in due parti (PNR in senso stretto e Fondone italiano), è stato concepito in modo unitario e le cose che sono state spostate di qua e di là lo sono state in relazione a scelte d’opportunità perché le due parti condividono regole comuni ma le cose poste sul Fondone sono cose meno contrattabili con l’Europa o con tempi di realizzazione meno rigidi di quelli richiesti dalla Commissione Europea, ma nella divisione del peso d’intervento e nella locazione tra Ministeri, ormai il quadro ha un suo equilibrio che naturalmente che può essere valutato diversamente ma non c’è spazio per spostare cifre così importanti.

(…) Penso che proprio a partire dalle sollecitazioni di Linda Laura Sabbadini si possa arrivare presto – le schede dei progetti non le ho ancora viste – ad una chiarezza maggiore sui fondi extra (…) ma occorre soprattutto capire come verranno definiti i Bandi, avendo interesse che vadano a buon fine.

È un’operazione tutta da gestire e in cui far sentire la nostra voce, avendo già avuto l’esperienza del recente Bando di 700 milioni – stiamo parlando diun pezzo che è già partito essendo già stato approvato – di cui i famosi 280 milioni anche per gli asili nido.

(…) I criteri con cui sono stati definiti i punteggi lasciano a desiderare (ndr. intervento di L. L. Sabbadini: “…Vanno al Nord!”) e bisogna capire perché il Bando va a rilento… non solo per reclamare risorse adeguate e correnti – è evidente che un Comune non costruisce le mura di un asilo se non ha i soldi per metterci dentro maestre e maestri!–(…) ma per attuare un monitoraggio costante data la rilevanza nel discorso in corso.