Il Dipartimento Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio dei Ministri ha pubblicato un documento che annuncia “un nuovo Rinascimento” per le donne: la Ministra Bonetti si dichiara “convinta” di poter “costruire un percorso inedito di crescita “.

A una lettura attenta, però, l’aspetto innovativo della proposta sfugge, se non per  l’insistenza sugli ambiti “STEM”, scienza, tecnologia, ingegneria e matematica, per i quali si ipotizzano percorsi progettuali, d’istruzione, che rendano gli studenti e le studentesse in grado di “affrontare le esigenze del sistema economico”. In riferimento a ciò, non vengono evidenziate  –  l’aspetto innovativo sarebbe stato proprio questo – le linee guida che sottendono a queste idee progettuali; il che è (sarebbe stato) importantissimo, perché il problema è proprio riuscire ad andare alla radice del problema, per affrontarlo in modo mirato. Altrimenti ci si gira intorno soltanto.

Il documento fa riferimento ai dati PISA, che negli studi matematici  vedono i ragazzi più avanti rispetto alle ragazze. Questo, viene rilevato come gap, perché   “la matematica è un linguaggio imprescindibile su cui si costruisce l’interesse e l’entrata nelle STEM …. la matematica e la scienza partecipano in modo importante alla costruzione di sé e a porre le basi per uno sguardo critico sul mondo, inclusa la capacità di distinguere tra fatti e percezioni”. Sicuramente la matematica è fondamentale, dal punto di vista cognitivo e meta-cognitivo;  risulta discutibile, però, la seconda parte dell’enunciazione: la “costruzione di sé ”, lo “sguardo critico” capace di “distinguere tra fatti e percezioni”  lo dà la filosofia, e più specificamente, l’epistemologia, ambito qui del tutto ignorato. Ma da tempo, purtroppo, la politica ignora ciò che nutre il pensiero divergente.

Il documento espone vari obiettivi, tra cui quello di “integrare i percorsi universitari, per promuovere dialogo e complementarietà tra materie umanistiche e materie scientifiche”: tanti anni fa ne scriveva il Nobel per la Chimica Ilja Prigogine, a supporto di una complementarietà, multidisciplinarietà e interdisciplinarietà, che favorisse vision ad ampio raggio intellettuale. Oggi più che mai  imprescindibili.  “Rinnovare il modello di insegnamento della matematica basato sull’adozione di pedagogie innovative, ….. con una attenzione forte alle problematiche di genere”, si legge nel documento. In questo, la Ministra e la sua Task Force si inseriscono in un percorso che lo stesso Dipartimento per le Pari Opportunità ha praticato in passato. Nel procedere, sarà (sarebbe) comunque ineludibile prendere le distanze da visioni stereotipate e non fondate criticamente, quali la riluttanza femminile nei confronti dei saperi matematico-scientifici addirittura reiterata dallo stesso documento lì dove si legge “ulteriore evidenza sull’allontanamento precoce delle ragazze dalla matematica”.

La questione è meno “apodittica” di quanto possa apparire (se ne può leggere  nel mio pezzo “Donne e matematica : la soluzione oxfordiana che non analizza il problema..” già pubblicato su questa testata).

Sulla problematica, il mondo anglosassone ha da tempo prodotto importanti studi gender oriented  mirati alla rimodulazione didattica delle discipline scientifico-matematiche: E. Fox Keller, da tempo docente di matematica e studi umanistici (l’interdisciplinarietà…) alla Northeastern University di Boston, ha rilevato gli aspetti da eliminare nell’approccio di genere alla didattica delle scienze. Questa, la pars destruens  : 1) il criterio-valore dell’oggettività, che separa nettamente soggetto e oggetto; 2) la categoria dell’astrazione–formalizzazione che (ricollegandosi alla separazione soggetto-oggetto), rifiuta la dimensione relazionale ed etica; 3) la concezione della scienza intesa come “dominio”, quindi come potere illimitato sulla natura.

Si tratta di aspetti relativi a una concezione della scienza che scatena “allergie” femminili tutt’altro che patologiche, anzi. Tali …“esantemi culturali” possono supportare positivamente un’altra proposta (sicuramente valida, ove coinvolga esperte di settore, e non semplicemente nomi altisonanti) avanzata nel documento, e cioè l’inclusione di una “rappresentanza femminile, (… in posizioni di coordinamento) come uno dei criteri di valutazione di progetti scientifici perl’allocazione di finanziamenti regionali e nazionali”: in questo caso, la presenza femminile (se libera da condizionamenti) rappresenterebbe un autentico valore aggiunto nella valutazione, anche etica e bioetica, degli obiettivi di investimento. Discorso, questo, più che mai attuale, ora che l’evidenza dei recenti fatti legati alla pandemia Cov-19 ha collegato l’aspetto scientifico-sanitario a quello tecnologico e ambientale, anche puntando l’indice sul 5G. La natura va rispettata, non va dominata: noi ne facciamo parte, e dunque, ogni sua sofferenza si riversa inevitabilmente su di noi. Oggetto e soggetto non sono da intendere come separati.

Il problema è complesso, cerco di spiegarmi meglio.

Alla concezione maschile della scienza (secondo Keller la scienza porta con sé i segni dell’attribuzione di genere maschile, sia nel suo approccio alla realtà, tradizionalmente connotato come separazione e distanza, sia nei modi in cui viene usata, che sono fondati sul “dominio”), il pensiero femminile risponde col “limite”, che contribuisce a sostenere l’etica della responsabilità.  Il “limite”, infatti, consente di riflettere sulle applicazioni della scienza (e della tecnica) in termini di sviluppo sostenibile e compatibile, secondo una prospettiva non soltanto economica, ma anche etica, in funzione del miglioramento della vita dell’umanità intera, e non soltanto in funzione degli interessi di una ristretta parte di essa. Il rifiuto femminile del concetto di “dominio”, si riallaccia a un versante “verde” di riflessione epistemologica: Y. King, partendo dal trito stereotipo secondo cui “le donne per la loro emotività sono troppo vicine alla natura, e quindi incapaci di intendere e agire secondo criteri oggettivi” (R. Alicchio – a cura di, in “Donne e Scienza : esperienze e riflessioni” , Rosenberg e Sellier) rivendica, con connotati di forte positività, l’equivalenza donna/natura: tale assimilazione, lontana dall’essere concepita come disvalore, viene considerata come differenza-valore che consente nuovi approcci cognitivi ed etici, in  un contesto  di relazioni nuove tra soggetto e oggetto, insieme a nuove rappresentazioni del sé e della natura. Le donne rifiutano un’oggettività (della natura) intesa come annullamento del relazionale, e soprattutto, sono lontane da atteggiamenti “gnoseologici” motivati esclusivamente da esigenze di carattere strumentale, ovvero di crudo profitto. Cosa non da poco, coi tempi che corrono.

Dunque, è bene guardare alla dimensione femminile come a una risorsa, con segno “+”, e non con segno “-”,  e questo, purtroppo, il documento “pariopportunitario” non sembra averlo fatto; ha, invece, trascurato un basilare concetto delle pari opportunità, e cioè la complementarietà di genere, negando sostanzialmente (ma forse inconsapevolmente) –  nel fare dipendere tutto dall’esistente ( considerato come dato sic et nunc,  e non come fatto, modificabile) – quella “cittadinanza” che “comincia a due”, di cui ha scritto Luce Irigaray.

L’innovazione, per essere realmente paritaria, deve tenere conto di tutto l’esistente, e di tutte le realtà, non solo di quelle dominanti. E non deve omologare. Il segno “-“  fa dipendere la valutazione in diminutio da un unico sistema di riferimento, quello dominante, che è maschile e detta ogni regola, con buona pace del  “pluralismo dei mondi vitali” auspicato da Lia Cigarini.

Ma, ricordiamocelo,  il modo maschile  rappresenta  giusto la metà del cielo. Anzi, anche meno. Lo dicono proprio i numeri. 

L’autrice è Esperta di Gender Mainstreaming