Alla manifestazione “Se non ora, quando?” di Bologna eravamo tante, in questa domenica di quasi San Valentino in cui c’è poco da festeggiare, quanto a rapporti tra i generi.Un corteo lunghissimo, di circa cinquantamila persone, in gran parte donne. {{Signore sessantenni o giù di lì}}, con gli occhi lampeggianti a tradire l’entusiasmo di essere di nuovo in piazza, insieme, {{fianco a fianco delle figlie trentenni e delle loro bimbe,}} a loro volta mischiate a liceali e universitarie. E poi uomini, quelli sani: chi con una bambina seduta sulle spalle, chi per mano alla fidanzata, o a braccetto di una moglie – magari, chissà, conosciuta quarant’anni prima in una circostanza simile.

“Cosa stiamo facendo, papà?”, alza gli occhi una bimba di quattro, cinque anni. “Ci stiamo provando, tesoro!”, risponde lui sorridendo, con un tono che sembra tanto una promessa.

Molto si è dibattuto in questi giorni, a proposito della manifestazione che ha coinvolto tutte le piazze d’Italia – un appello a dichiarare il proprio sdegno e la propria stanchezza, rivolto alle donne e agli uomini ‘amici delle donne’. {{Tra le donne e tra le fila dei movimenti femministi sono sorti punti di vista differenti,}} pro o contro un evento pubblico passibile di varie e contrapposte interpretazioni; al di là delle opinioni sulla manifestazione, i{{l fulcro del dibattito}} risiede più in profondità, nel come pensare, descrivere, parlare di e prendere posizione rispetto a una serie di episodi che hanno svelato in modo macroscopico il legame tra sesso e potere politico e, ancora più alla base, rispetto a un certo schema di rapporto tra i sessi, che credevamo affossato per sempre.

Il modo in cui questo ‘come’ è stato discusso sui giornali e nei media in genere sembra aver escluso, ancora una volta, il punto di vista più profondamente femminile – e dunque femminista – sulla questione.

In molti casi, il Rubygate è stato presentato come {{una sbavatura del ‘privato’ nel ‘pubblico’,}} un eccesso del primo che, proprio in quanto eccesso, ha debordato, invadendo la sfera del pubblico. Come a dire che, se questo privato non avesse coinvolto, ad esempio, persone minorenni o il rischio della ricattabilità, avrebbe potuto restare relegato ai salotti e alle stanze da letto del signore in questione, il quale avrebbe continuato a gestire il proprio ruolo pubblico in tranquilla indipendenza dal proprio fare privato. Ebbene, che queste due sfere siano e debbano restare scisse ed estranee l’una all’altra, è tutto da verificare. Se certo pensiero maschile tende a dividere i due aspetti, terrorizzato dall’ipotesi che il pubblico possa essere influenzato e inquinato dal privato, il pensiero femminista sa guardare a questi due ambiti come ad elementi che si completano e fecondano a vicenda. Il ‘privato’ deve poter partecipare del ‘pubblico’; quando il privato è politico, certamente più di quanto lo sono le alleanze tra partiti, i discorsi, le cariche istituzionali. Anche in casa propria, un personaggio pubblico resta tale e, in quanto investito di grandi poteri, deve saper essere degno di grandi responsabilità, non ultima quella dell’esempio.

A parere di molte, il nodo della questione non è nemmeno quello individuato dalla politica ufficiale, la cui tentazione è stata – sostiene {{Elettra Deiana}} – “di derubricare inclinazioni e pratiche sessuali del premier alla mera dimensione personale, o di enfatizzare […] soltanto il profilo scandalistico e possibilmente giudiziario”. Non è gossip da salotti e non è (solo) problema legale: tutto questo è, infatti, ben più grande e grave di così. Non si tratta nemmeno di distinguere tra coloro che ‘scelgono’ la prostituzione, “indecenti per obbedienza” come la Marilyn di Pasolini, e “tutte le altre donne” cui {{Concita De Gregorio}} ha rivolto il suo appello, perché questo porta con sé odore di moralismo; né è questione di dignità della nazione, specchio secondo alcuni della dignità femminile, poiché “è certo che dignità e libertà femminile si sono affermate da sempre non dentro e con, ma dentro e contro le vicende, oggi e non solo oggi alquanto indegne, della nazione, e in un movimento ben più largo dei suoi confini”. Ugualmente, è opinabile l’idea che ad essere violata dal sexgate e dai suoi strascichi sia la dignità solo femminile; questa messinscena della virilità dovrebbe offendere almeno allo stesso modo, o forse più, gli uomini italiani, che invece di ergersi a paladini della dignità delle “loro” donne – scivolando miseramente in quegli stessi meccanismi machisti che credono di stare criticando – dovrebbero interrogarsi sulla loro.

Ma {{un sentire comune c’era, domenica}}, ulteriore a quanto detto sopra e alle posizioni di tutte. Oltre l’indignazione per la goccia che, proverbialmente, fa traboccare il vaso, oltre le personali opinioni sui comportamenti di un potente e del suo seguito, stava e sta, credo, {{l’esasperazione}}. Nella quale confluiscono – purtroppo – molti, moltissimi elementi, il cui comune denominatore sono le discriminazioni e le violazioni che le donne italiane, ogni giorno, subiscono. Si tratta di ‘concrete’ negazioni di diritti e di altre più sotterranee – e dunque più pericolose.

Le prime sono quelle delle cifre: 20% di donne che lascia o perde il lavoro dopo la nascita di un figlio, 15% di donne tra i sedici e i settant’anni che ha subito nel corso della vita almeno una violenza fisica o sessuale da un partner, 70% del lavoro familiare a carico della donna, nelle coppie di lavoratori , tasso di occupazione femminile al 47%, superiore a livello europeo solo a Malta e Ungheria , 10% di donne Sindaco e 18% di donne in Parlamento.

I numeri sanciscono chiaramente una situazione, ma non dicono ancora tutto. Le violazioni sotterranee, le più difficili da misurare eppure le più potenti nella formazione delle coscienze, delle relazioni e degli immaginari, si compiono senza che quasi ce ne accorgiamo: sono quelle che costruiscono una certa forma di mondo, in cui la maggioranza della popolazione, quella costituita dalle donne, viene troppo spesso rappresentata, utilizzata, plasmata e narrata in favore delle esigenze e secondo i canoni del genere maschile, ridotta al silenzio e a ruoli meramente decorativi, quando non umilianti.

L’esasperazione indotta da questa situazione generalizzata e sdoganata ogni giorno negli ambienti e attraverso i canali più diversi, è (o dovrebbe essere), mi sembra, più profonda dell’indignazione suscitata dagli eventi recenti. La speranza è che possa essere anche più prolifica, e che possa fungere da combustibile della solidarietà tra donne, del desiderio di diversità e pluralismo, del pensiero differente, dell’affermazione della soggettività femminile e di una nuova alternativa.

{{In fondo, come cantavamo domenica in corteo: “Siamo la luna che muove le maree, cambieremo il mondo con le nostre idee”.}}

{immagine} da multimedia.quotidiano.net