Il 2020 si apre con una novità che riguarda l’Università di Oxford: alle studentesse dei corsi di matematica saranno concessi, nei test, quindici muniti in più rispetto ai loro colleghi maschi. Lo scopo sarebbe quello di eliminare il (così percepito)gap di genere rilevato dalla bassa percentuale di donne laureate nella stessa disciplina. Si tratterebbe, insomma, di una “discriminazione positiva”.

In realtà, a ben analizzare, la soluzione non soltanto è semplicistica (tra un attimo spiegherò perché), ma è addirittura tarata al suo interno da un gap strutturale che non affronta né risolve il problema: intanto, perché, rimarcando (e nemmeno implicitamente) che le donne abbiano bisogno di più tempo per ragionare matematicamente (ovvero in termini di logica astratta), ripropone uno stereotipo antifemminile vecchio quanto il mondo. Stereotipo che, peraltro, è contraddetto dal grandissimo numero di donne matematiche presenti fin dall’antichità, a cominciare da Theano, Ipazia, e poi, continuando nei secoli, Lucrezia Cornaro, Maria Gaetana Agnesi, Ruth Gentry, Agnes Baxter, Clarbel Kendall, Nina Karlovna, Florence Nightingale, Olga Alexandrovna, Bhama Srinivasan, Kristyna Kuperberg, Sung Yung Chan, Argelia Rodriguez, Fan Chung, Bernardette Rioli, giusto per fare qualche nome di una lista enormemente lunga, più di trecento matematiche illustri.

La soluzione oxfordiana è semplicistica perché non riesce ad andare al cuore del problema, che non è costituito dal fattore tempo, bensì dal metodo.

Come da anni sostiene Evelin Fox Keller, docente alla Boston University, la problematica è carica di aspetti fondativi che assumono connotati di genere. In effetti, la struttura della didattica in uso è allineata alle caratteristiche cognitive maschili. Si rende perciò necessaria un’ottica metodologica nuova, con l’utilizzo di un diverso “linguaggio di servizio” che sollevi la matematica da quel terreno di aridità in cui spesso rimane confinata. Bisogna saper individuare, e comunicare, le “incertezze” e le selezioni attraverso cui si perviene a soluzioni formalizzate, e occorre liquidare lo stereotipo della indiscutibilità-e-assoluta-universalità-della-matematica, peraltro già messo in mora da quel sapere matematico che va da Riemann a Godel. Insomma, sarà necessario far emergere dalle secche della tradizionale rigidità culturale, l’aspetto problematico – e anche creativo – della matematica. Così operando, si solleciteranno le studentesse, e gli studenti, a procedure argomentative che non si riconducano alla sola deduzione (che, certamente, rappresenta un punto di forza della matematica, ma non è l’unico), e si potrà contribuire alla realizzazione di quella “pluralizzazione dei mondi” (Lia Cigarini), vitali e mentali, sollecitata dalla cultura gender oriented. Come sostiene Mauro Palma, il matematico coinvolto anni fa in un importante progetto del Dipartimento pari opportunità della Presidenza del Consiglio dei Ministri, “la trappola della neutralità della matematica svela tutta la sua presunzione di racchiudere il molteplice in un recinto rassicurante e controllabile; il cosiddetto rigore della matematica non è definito una volta per tutte, ma cambia, col mutare del contesto storico”.

Sarebbe molto interessante, poi, guardare alla questione “metodo” distinguendola per nazioni, con dati disaggregati, anche in considerazione del fatto che il gap risulta particolarmente marcato in Italia. Anni fa, in occasione del 150° anniversario dell’Unità d’Italia, qualcuno, tra il serio e il faceto, ha fatto risaltare il fatto che la nostra nazione è unita, se non altro, in ignoranza matematica: circa il 45% dei ragazzi e delle ragazze che frequentano le scuole superiori può infatti sventolare il vessillo di un patriottico debito formativo in matematica. E qui, il gap non fa distinzioni di genere. Anche in questo caso il rimedio individuato (stavolta dall’italico MIUR) è stato quantitativo, ovvero, un generale potenziamento delle ore di insegnamento della materia incriminata. Ancora una volta si è pensato alla quantità e non alla qualità. In merito, Cesare Segre non ha mancato di esprimere il suo scetticismo: “Si vedrà se ciò basterà per risolvere il problema, oppure se quello che serve è un nuovo metodo....”. Il nodo gordiano, infatti, sta proprio qui, nel metodo, nella qualità, e non nella quantità dell’offerta didattica. Né nei quindici minuti in più concessi alle studentesse oxfordiane, presunte “lentulae”…