Wonbit è il titolo del convegno internazionale “Donne e biotecnologie, approcci femministi e scientifici a confronto”, promosso dall’Associazione Donne e Scienza e dalla Fondazione Brodolini e svoltosi dal 21 al 23 giugno a Roma. Coordinatrici scientifiche: Francesca Molfino, Anna Simonazzi, Flavia Zucco.Il convegno era concepito per mettere a confronto donne che, da formazioni e posizioni diverse, fossero interessate a {{colmare le distanze tra femminismo e scienza}}, da un lato, e tra diversi approcci femministi alla scienza, dall’altro. La questione di fondo, sottostante a tutti i temi trattati, era la{{ mancanza di comunicazione tra scienza e società}}, con lo squilibrio che ne deriva, tra le grandi aspettative riposte nel progresso scientifico e tecnologico, e le inquietudini circa le ricadute in termini di rischi e di radicali modificazioni dell’identità biologica e culturale.
Gli interventi erano raggruppati in quattro settori tematici:
– le scienziate nella ricerca biotecnologica;
– corpi, culture e metafore scientifiche;
– gli effetti ambientali delle biotecnologie;
– fronteggiare l’impatto: la società e le biotecnologie.

Il non facile compito di illustrare la materia dalle sue varie angolazioni era affrontato nella relazione introduttiva di {{Wendy Harcourt}}, presidente di Wide ([Women in development Europe->http://wide.gloobal.net/]) e direttrice della rivista “Development”, a partire dalla premessa che l’argomento “donne e biotecnologie” è ampio e complesso dal punto di vista etico, politico, scientifico.
_ Le biotecnologie, nuova area di frontiera nello sviluppo scientifico, costituiscono una sfida dal punto di vista dell’informazione e della responsabilità di chi in esse è impegnato; può essere, come auspicano anche documenti Unesco citati dalla Harcourt, che le donne coinvolte nel lavoro scientifico riescano a dare un contributo forte al cambiamento dell’immagine sociale, dei contenuti e del ruolo della scienza e della tecnologia?
_ Ed è possibile che la componente maschile, nelle cui mani risiede ancora il potere decisionale, venga “educata” alla democrazia e al senso di responsabilità? Forse le aspettative appaiono sproporzionate rispetto alla realtà in cui viviamo, ma l’ispirazione femminista aiuta a stabilire relazioni e a creare ponti che sarebbero altrimenti impensabili nelle aride lande della bioetica.

Nella maggior parte delle relazioni si avvertiva, in effetti, almeno un’eco di quella problematicità che {{Elena Gagliasso}} considera una ricchezza, consentita alle donne quando acquistano coscienza di una loro “{{doppia appartenenza}}”, che ne moltiplica il portato esperenziale e i livelli cognitivi. Senza cadere nelle distinzioni stereotipate tra caratteristiche di genere, si può dire che l’essere donne connotava profondamente quasi tutti gli interventi, in particolare quelli che esaminavano aspetti legati a specifici rischi, o vantaggi, per individui e collettività.

Un esempio: {{Amalia Bosia}} (Dipartimento di Genetica Biologia e Biochimica dell’Università di Torino), parlando di tecnologie del Dna, ha calibrato con molta cura {{rischi e benefici delle terapie geniche}} destinate a singoli pazienti, e ha ben distinto tali procedure da quelle che tendono a sconfinare nell’eugenetica.
_ Senza trascurare un aspetto raramente dibattuto nelle politiche pubbliche, quello dell’{{etica antropocentrica che infligge gravi sofferenze agli esseri non-umani}}, in primis agli animali transgenici. Ha concluso con il richiamo al principio di precauzione a all’esigenza di dibattere più apertamente le questioni sul tappeto.

Quando dall’Europa si passano a considerare le questioni aperte nel Sud del mondo, non si può prescindere dalle argomentazioni dell’{{ecofemminismo}} e, comunque, da quelle di autorità femminili come Vandana Shiva. Un intervento interessante, relativo agli effetti ambientali delle biotecnologie, è stato quello di {{Suman Sahai}} ([Gene Campaign->http://www.genecampaign.org/], India), che ha parlato dell’impatto delle innovazioni biotecnologiche nell’agricoltura a carattere familiare; l’introduzione dei raccolti resistenti agli erbicidi comporta l’estinzione di innumerevoli piante, necessarie per l’alimentazione e la cura delle persone, nonché degli animali che entrano nel quadro dell’economia rurale.

Ma tornando dall’Asia in Europa, si osserva che la manipolazione genetica in agricoltura tende ovunque a sfuggire al controllo democratico; per esempio, la sociologa {{Judit Acsàdy}}, dell’Accademia ungherese delle scienze, ha accennato alle pressioni esercitate dalla Monsanto sul Ministero dell’Agricoltura del suo paese, per ovviare alle incertezze presenti nell’opinione pubblica; la partecipazione delle donne al dibattito pubblico sugli Ogm è abbastanza significativa, benché le biotecnologie siano scarsamente discusse dalle associazioni femminili. Quanto alle ricercatrici ungheresi, c’è chi ammette che la curiosità da cui è mossa nel proprio lavoro possa andare in direzione contraria alla sostenibilità.

Si può dire che la mancanza di un dibattito veramente informato da parte del pubblico in tema di biotecnologie sia, in tutto il mondo, l’altra faccia di quello che {{Barbara Duden}} ha riproposto come l’ingresso dei “geni” nel linguaggio comune, un processo irreversibile di modifica dell’”io”. Forse, soltanto chi mantiene un legame profondo con radici “altre”, può mantenere una distanza critica che è diventata quasi impossibile.

Nella tavola rotonda finale, {{Elisa Molinari}} (Università di Modena), impegnata nello studio delle {{nanotecnologie}}, non ha escluso che le scienziate possano contribuire a indirizzare l’uso delle tecnologie verso scopi positivi, purché si riescano a stabilire collegamenti tra laboratori e pubblico. Purtroppo, in molti campi la centralizzazione in poche imprese esclude “la maggior parte del mondo” dal controllo, e dalla creazione di laboratori decentrati. Per la coordinatrice {{ Silvie Coyaud}} esistono, negli atteggiamenti delle donne scienziate, elementi contraddittori inevitabili ma si può, intanto, {{diffidare delle “bugie” palesi}} e di coloro che le dicono…

Si tratta, ancora una volta, del richiamo all’ impegno individuale e collettivo, che era presente anche nelle parole conclusive di {{Heidi Diggelman}}, ex presidente della Federazione svizzera: esistono responsabilità molteplici nei confronti della società, delle future generazioni, dell’ambiente, e dovremmo affrontarle adottando un linguaggio comune; potrebbe essere utile tornare al concetto di scienza come Wissenschaft, che a differenza del termine anglosassone include il punto di vista delle scienze umane.
_ Al prossimo convegno, ha detto la Diggelman tra lo scetticismo di molte, forse parteciperanno anche degli uomini. Magari, aggiungo, prenderemo sul serio la battuta di Suman Sahai, “A sensitive man is almost as good as a woman”…

L’autrice fa parte dell’Associazione {{Donne e Scienza}}, nata nel 2003 dai gruppi che per anni hanno lavorato a Roma, a Torino, a Milano, riunendosi periodicamente presso il Centro Documentazione delle Donne a Bologna. L’associazione oggi è inserita a pieno titolo in organizzazioni europee, come l’Epws ([European platform of women scientists->http://www.epws.org/]) con sede a Bruxelles, nel cui consiglio di amministrazione è presente Flavia Zucco.