Un anno fa, in occasione della manifestazione nazionale delle donne contro la violenza maschile, alcune/i militanti contro lo sfruttamento animale cominciarono ad interrogarsi sull’intersezione tra discriminazione di genere e discriminazione di specie.Nacque così il collettivo [donnEanimali->http://www.donneanimali.org].

L’argomento è poco esplorato in Italia, ed alcuni lo troveranno forse marginale. Eppure, la voce e l’esperienza delle donne – già più numerose degli uomini nella scelta vegetariana, nella cura concreta degli animali e nella militanza politica in loro favore – costituiscono un apporto fondamentale alla lotta per la liberazione animale.

{{Il percorso di donnEanimali}} è nato come critica alll’astrattezza categorizzante che contraddistingue lo sguardo maschile anche quando nega l’ideologia specista: infatti, in mancanza dell’apporto del pensiero femminista, che separa il biologico dal politico, {{parlare di semplice anti-specismo rischia di riproporre concettualmente la distinzione tra specie}} costruita da quella stessa ideologia che si vuole contrastare.
_ Invece la specie non solo è una categoria storica, e quindi mobile, come insegna la biologia evolutiva, ma soprattuto è una {{categoria politica}}, come il genere e la razza, e in quanto tale non coincide con distinzioni biologiche. Solo riconoscendo questa realtà diviene possibile vedere gli {{animali come soggetti insieme ai quali vivere}}, in una società allargata, multispecifica (nello stesso senso in cui si parla di multiculturalità), e non semplicemente da tollerare o tutelare, perpetuando idealmente lo stesso gesto di separazione che oggi li rende schiavi.

Questa difficoltà, notano le donne, è diretta conseguenza della {{predominanza della parola maschile nella teorizzazione della questione animale}}.
_ La parola maschile finisce per imprigionare l’asse del discorso all’interno della dilaniata coscienza dell’animale dominante, l’uomo come maschio, bianco, occidentale, etc.
_ Pur esprimendo {pentimento}, un tale discorso non potrà che riaffermare inevitabilmente l’ego ed il protagonismo del dominante, mentre l’esistenza concreta degli animali-vittime – donne, popoli colonizzati, migranti, animali non umani… – continuerà a non manifestarsi nella sua soggettività ed autonomia, e a restare immagine fantasmatica e passiva: anche se destinatarie di riabilitazione, le vittime continueranno a subire silenziosamente la costruzione della loro identità da parte di altri.

Prendendo la parola, le donne, che vivono nella loro carne condizioni di oppressione molto vicine a quelle degli animali, possono avviare invece un'{{analisi diversa, basata sull’esplorazione delle origini materiali delle categorie di discriminazione}}.
_ Questa analisi {{rifiuta l’idea che l’oppressione sia il prodotto di un processo di costruzione psicologica dell’alterità da soggiogare}}; o ancora, con un tipico sofisma idealistico, che sia il prodotto di una generica {ideologia del dominio}: le idee, infatti, possono accompagnare la conflittualità sociale, ma non esserne all’origine. Si tratta invece di indagare dal basso l’instaurazione delle modalità concrete di appropriazione dei corpi, delle energie e del lavoro di donne, animali ed altri soggetti oppressi.

Emergono allora dati come la {{spartizione del cibo secondo il genere}}: per tradizione, la carne spetta agli uomini, e alle donne sono riservati cibi più delicati; questo, insieme al fatto che gli {{animali uccisi per il consumo alimentare non sono mai maschi}}, ma cuccioli, o giovani castrati, o femmine non più produttive, spinge {{Carol Adams}} (in {The Sexual Politics of Meat}, 1990, Continuum) a concludere che {{il consumo di carne è intimamente legato al dominio maschile}}.
_ O come l'{{intreccio tra economia zootecnica ed economia patriarcale}}: nel mondo rurale tradizionale, spiega {{Christine Delphy}} (ne {L’ennemi principal 1}, {Économie politique du patriarcat}, Éditions Syllepses, Paris 1998), gran parte del lavoro viene svolto gratuitamente dalle donne della famiglia del fattore; per cui, alla condizione di schiavitù degli animali corrisponde una fattuale condizione di servitù delle donne. Sia per quanto riguarda il consumo che la produzione della carne, quindi, {{l’oppressione degli animali non umani fa da sfondo a quella delle donne}}.

Anche nella {{problematica del cosiddetto scontro di culture}} le donne e gli animali si ritrovano vicini, in quanto oggetto delle due polemiche più spesso ricorrenti: {{quella sul velo e quella sulla macellazione rituale}}. Le une e gli altri, da vittime concrete divengono semplici pedine nel duello tra due differenti tecnologie del corpo, quella “laica” occidentale e quella teocratica medio-orientale, e restano puri oggetti di appropriazione secondo le modalità dell’una e dell’altra, senza mai potersi innalzare al rango di soggetti, unici custodi della propria integrità.

Attualmente, donnEanimali esplora il {{modo in cui gli animali sono usati come simboli di un ideale “naturale” di famiglia nella letteratura per l’infanzia}}: mamme orse che preparano la cena mentre papà orsi attendono ronfando in poltrona sono chiaramente strumenti volti ad inculcare nell’immaginario di bambine e bambini la norma eterosessuale e la stereotipata divisione del lavoro secondo il genere.

Quest’ultimo tema costituisce l’avvio del [comunicato di adesione di donnEanimali alla mobilitazione delle donne contro la violenza maschile->http://www.donneanimali.org/it/comunicati/20081122.html]. Sabato 22 novembre, anche le vegetariane si uniscono al corteo delle donne, con lo slogan: {nessuno è schiavo per natura: nessun codice genetico condanna i corpi delle donne e degli animali non umani ad un destino di servitù}.