Per saperne di più sulla presenza delle donne nelle dinamiche di conflitto e nei processi di pace abbiamo intervistato Luisa Del Turco, esperta in cooperazione internazionale e tematiche di genere.
Il ruolo delle donne nei conflitti armati si è ampiamente diversificato. Le donne rappresentano la stragrande maggioranza dei rifugiati, degli sfollati, delle vittime.Si attivano in favore della pace sviluppando vere e proprie attività di pacificazione e riconciliazione. Abbracciano le armi in qualità di combattenti nelle guerre di liberazione, ma sono anche presenti negli eserciti nazionali e tra i peace keepers in tutti gli interventi militari. Su questi temi abbiamo intervistato Luisa Del Turco curatrice del volume {Donne, conflitti e processi di pace}

{{Qual è il ruolo delle donne nei conflitti armati?}}

La prima immagine che evoca la guerra è senz’altro quella della donna-vittima. Nei recenti conflitti interni in particolare, le donne rappresentano il target privilegiato di specifiche violenze di cui tutti conosciamo l’orrore (stupri, gravidanze e aborti forzati). Le donne, però, sono da sempre anche registe occulte di processi di pace. Promuovere la pace fa parte di quello che potremmo definire il loro “patrimonio culturale di genere”, una realtà oggi riconosciuta in tanti documenti ufficiali, soprattutto nell’ambito delle Nazioni Unite. Ma occorre ricordare un’altra dimensione, forse meno nota ma altrettanto importante: quella delle donne che combattono. Sebbene le pratiche di pace siano quelle predominanti, è dunque necessario scardinare lo stereotipo della donna vittima di violenza /promotrice di pace. Far corrispondere l’anelito alla pace ad una certa categoria o ad un genere in maniera rigida, del resto – a mio avviso – non è un modo corretto per affrontare il tema.

{{Quando e perché le donne abbracciano le armi?}}

Spesso sono protagoniste di guerre di liberazione, che uniscono al forte valore ideale la prospettiva dell’empowerment. Il conflitto armato, momento in cui si destrutturano gli equilibri sociali, rappresenta in questo senso per le donne una preziosa opportunità di cambiamento, sebbene il loro impegno tuttavia non venga sempre ripagato secondo le aspettative. In molti casi le donne, anche dopo aver partecipato attivamente ai combattimenti, rimangono escluse dai processi decisionali, quando non socialmente emarginate per aver dimostrato eccessiva intraprendenza. Guardando l’attuale scenario in un’ottica di genere dobbiamo poi considerare non solo le “guerrigliere” ma anche le donne presenti negli eserciti regolari, numerose anche tra i peace-keepers, e in tutte le attuali tipologie di interventi militari.

{{Cosa ha spinto le donne ad attivarsi in favore della pace e a sviluppare vere e proprie attività di pacificazione e di riconciliazione?}}

Sono spinte da motivazioni diverse, che non si escludono ma possono rafforzarsi l’una con l’altra. Secondo alcuni è determinante il dato biologico, diffusa è anche l’opinione che sia l’esperienza della maternità a determinare nelle donne una particolare vocazione pacifica. Spesso si fa riferimento a ragioni molto pratiche e concrete, quali il timore per l’allontanamento degli uomini e la conseguente perdita del loro supporto economico. Al di là del fatto che il loro agire sia o no biologicamente determinato, credo che la motivazione principale sia comunque da rintracciarsi nella “rationality of care”: un senso estremo di concretezza dettato dalla vicinanza ai bisogni di base, a quei compiti di cura ai quali le donne sono ancora profondamente legate anche laddove l’evoluzione del contesto sociale ha permesso l’acquisizione di altri ruoli e funzioni. In questa dimensione di concretezza e di buon senso non si può non rifiutare la guerra.

{{Quali sono i caratteri specifici dell’azione delle donne per la promozione della pace?}}

Si tratta di pratiche di pace che nascono in ambiti informali, data la tradizionale esclusione delle donne dalle sedi decisionali, e che si caratterizzano per l’utilizzo di mezzi d’azione che richiamano quelli della trasformazione costruttiva dei conflitti: ascolto, empatia, sensibilizzazione (come portare le donne del fronte opposto a visitare le vittime delle azioni violente condotte dai loro mariti e figli), lavoro comune (praticato tra donne che la dinamica del conflitto collocherebbe su fronti opposti), uso dei simboli (come per le Donne in Nero), azioni che rompono la barriera tra pubblico e privato, strumenti fortemente innovativi rispetto a quelli classici della diplomazia e dei negoziati.

{{Perché le donne restano formalmente escluse dai processi di pace pur essendone promotrici?}}

Ai tavoli della pace siede in genere chi ha fatto la guerra, quindi tendenzialmente uomini e non donne. Questo corrisponde ad un concetto di pace inteso come cessazione delle violenze, ricerca di un compromesso tra parti contrapposte. Ma ampliando il concetto di pace come un processo attraverso il quale prospettare un futuro sostenibile a lungo termine, non possiamo privarci della risorsa di chi non ha combattuto. In questa prospettiva, che esalta il ruolo della società civile, e nella quale si inserisce anche la diplomazia multi-livello, le donne sono un elemento chiave. Partecipazione e inclusività sono una garanzia non solo per i loro diritti, ma anche per una pace stabile e duratura.

{{La risoluzione 1325 approvata dal Consiglio di sicurezza delle NU è stata effettivamente risolutiva? Le donne siedono ai Tavoli negoziali?}}

L’esclusione dai tavoli negoziali, ma anche dai processi decisionali più in generale, è un problema complesso la cui risposta deve essere modulata, particolarmente laddove gioca un ruolo anche una parte “esterna” al conflitto. Scegliere un’azione d’impatto secondo un modello precostituito, oltre che rappresentare una forma di colonialismo culturale, può causare reazioni di rigetto. Se poi l’azione di sostegno alla partecipazione e all’empowerment delle donne avviene nel contesto di interventi di carattere coercitivo, gli effetti possono essere molto ridotti. La comunità internazionale (e quel che è peggio le donne!) hanno in tempi recenti pagato alto il prezzo di una certa confusione di approcci.
Credo dunque che debbano essere le donne le protagoniste di questo processo e delle politiche che intendono avviarlo, ma condivido l’opinione (recentemente espressa da Thoraya Ahmed Obaid -UNFPA) che non dobbiamo rivolgerci solo all’esterno ma far partire il cambiamento “da dentro” di noi, e – aggiungerei – se si vuole caratterizzare il processo in senso pienamente partecipativo, coinvolgendo anche gli uomini.

{{Quali sono i problemi di cui si è parlato durante la giornata del Forum sulla cooperazione dedicata alle tematiche di genere?}}

Sono stati esaminati i problemi “cronici” che affliggono le donne in modo specifico e diffuso (empowerment politico ed economico, salute riproduttiva, violenza). Ho apprezzato molto che si sia parlato anche di cultura e di educazione. Credo sia importante la riflessione su questi aspetti che oggi vengono presentati come cause di contrapposizioni e conflitti. Le donne hanno più volte rappresentato una risorsa indispensabile per la pace proprio perché fanno rete e discutono in maniera trasversale, portando il dialogo su un piano diverso da quello degli interessi politici e delle posizioni ufficiali. Incontrarsi e mettere a confronto le proprie esperienze: questo rappresenta una risorsa preziosa per contrastare pregiudizi ed ignoranza, le vere gravi minacce per lo sviluppo di una cultura di pace.

{{Qual è la strategia delle donne nella promozione della pace?}}

Autorevoli fonti sconsigliano l’uso del termine “strategia”. Io preferisco non rinunciarvi perché non lo intendo applicabile solo all’ambito militare. “Strategia” (etimologicamente “agire su più strati”) può essere riferito in generale ad un azione multi-livello, e in questo senso bene si attaglia alla modalità di approccio al conflitto praticata dalle donne. La loro mancanza di potere formale si è trasformata in una risorsa, in capacità di comprendere ed agire sulle motivazioni e le cause profonde dei conflitti, partendo dalla dimensione interiore sia individuale che collettiva. Ciò ha permesso alle donne di costruire un bagaglio di abilità e tecniche che in alcune culture e tradizioni è loro valso il riconoscimento di un ruolo di mediatrici di conflitti.
_ Un’esperienza che nel tempo si è sviluppata anche e livello gruppale/comunitario, traducendosi in un impegno specifico nel campo dell’educazione alla pace, di cui abbiamo avuto autorevoli esponenti anche nel nostro paese. L’ultima frontiera raggiunta è quella della dimensione internazionale/globale, attraverso le attività delle reti di donne e le iniziative transnazionali. Questa modalità d’azione complessa e articolata su più livelli credo rappresenti una caratteristica specifica dell’agire strategico al femminile.

{{Lei si occupa di sicurezza ed emergenza, in che modo si sta sviluppando l’approccio di genere in questo settore?}}

Tra i diversi settori in cui si articola il complesso universo della cooperazione internazionale questo credo sia quello in più forte evoluzione, e forse uno degli ultimi in ordine di tempo ad integrare la prospettiva di genere. La risoluzione 1325 rappresenta un risultato molto significativo, sia per i suoi contenuti che per la sede in cui è stata adottata, ma anche senz’altro un punto di partenza.
_ Molto rimane ancora da sperimentare e realizzare prima che si possa garantirne una piena attuazione, e molto sarà ancora a mio giudizio da definire e ridefinire. Seguendo da tempo e in contesti diversi queste tematiche, ho colto di recente numerosi segnali positivi in questa direzione. Sia a livello nazionale che internazionale sono diverse le iniziative che confermano un’attenzione particolare da parte della comunità internazionale e la volontà comune di procedere ad un confronto e ad una azione quanto più possibile integrata tra livello istituzionale, società civile e mondo non governativo.
_ I gruppi di lavoro creati nell’ambito dell’Unione Europea e quelli nazionali formatisi in occasione delle recenti iniziative degli Stati Generali e dei Forum della cooperazione, ne sono un valido esempio. In queste come in altre sedi (da quelle accademiche a quelle operative) mi sembra che all’approccio di genere in situazioni di conflitto possa venire riconosciuta la sua specificità e complessità. Si tratta di affrontare questioni delicate che riguardano non solo l’aspetto della mediazione e della promozione della pace di cui sopra, ma anche il nuovo ruolo delle donne come operatrici di pace e umanitarie, ivi inclusa la loro presenza nelle forze armate e di polizia.
_ La viceministra Patrizia Sentinelli ha accennato al fatto che la commistione e la confusione tra intervento militare e intervento umanitario, tra specialisti del peace keeping e specialisti dell’aiuto umanitario, ha spesso messo spesso in pericolo la vita di operatori e cooperanti. Si parla di una nuova legge sulla cooperazione che ponga una netta separazione tra i due tipi di intervento.

{{Lei, cosa si aspetta da questa legge?}}

Per concludere quanto detto finora, potrei dire che mi auguro innanzitutto che al di là di quanto sarà definito a livello normativo quella di genere nella cooperazione divenga una prospettiva stabilmente integrata. Mi auguro che si esca definitivamente dalla settorialità, che non occorra più spiegare anche agli “addetti ai lavori” che non si tratta di parlare solo di donne né di donne solo come categoria particolarmente vulnerabile. Spero che la consapevolezza che esistono capacità, risorse, bisogni specifici per uomini e donne possa integrarsi nell’ambito di una “cultura della cooperazione” che ancora stenta ad affermarsi nel nostro paese. Per quanto riguarda la questione della coerenza delle varie azioni attuate nelle aree di crisi, vorrei cogliere l’occasione di rispondere ad un appello lanciato il mese scorso qui a Roma dalla rappresentante dell’associazione afgana AWCA, che ha invitato a chiedere ai governi (dei paesi che sono presenti sul territorio afgano) di fare chiarezza sulle tipologie di azione che stanno impiegando. Senza entrare nel merito delle scelte, che meriterebbero una riflessione a parte, credo sia comunque da condividere l’esigenza di rendere esplicita la natura degli interventi e le loro finalità. Non intendo comunque con questo stigmatizzare umanitario e politico secondo una logica di bianco e nero, pulito e sporco, bello e brutto. Occorre chiarezza, ma per gestire le emergenze l’intervento umanitario da solo non basta. Per trasformare le dinamiche di conflitto in processi di pace serve un azione complessa, che può giovarsi di contributi specifici e diversi, quelli di uomini e donne inclusi.

{Donne, Conflitti e Processi di Pace}, a cura di Luisa Del Turco, Società Editrice Universo, 2005, € 16,00