Froci, puttanieri, ora anche le succhiatrici di uccello. Chi avrebbe mai detto che questo fosse il repertorio sul quale dover riflettere, e scrivere, subendo quotidianamente un attacco di violenza e sozzura che resta appiccicato addosso, nonostante si cerchi di schivarlo, assieme all’inesorabile declino delle relazioni sociali e civili in Italia,
dal nord al sud, dalle città ai piccoli centri.

{{Sabina Guzzanti,}} dal palco della manifestazione romana partecipata da
girotondi, dipietristi, grillini e altra varia opposizione ha confermato,
una volta di più, che le donne potrebbero fare la differenza nell’esprimere
indignazione, disgusto e rabbia rispetto al degrado e all’ingiustizia della
politica (e della vita) in questo paese.

Una donna che davanti a trenta, quaranta mila persone ha un microfono e
quindi un grande potere di comunicazione può scegliere di gridare la sua
collera e il suo sdegno di cittadina e di arguta artista colpendo il potere
senza colludere con i suoi meccanismi, oppure uniformandosi con il
linguaggio e l’immaginario del potere.

{{Non mi scandalizzo che per colpire un uomo potente si offenda la parte
femminile della sua vita}}: non è forse vero che il principale e più frequente
insulto è “figlio di puttana”? Lo si dice ormai in automatico, senza
riflettere su due questioni che saranno di certo considerate marginali: con
quella frase in primo luogo si attribuisce la colpa del comportamento
disdicevole non al responsabile, ma alla sua origine (la madre, una donna) e
in secondo luogo non si considera mai che se esiste una madre deve esistere
anche un padre, ma lui non lo si considera.

Non mi scandalizzo perché {{è secolare lo spettacolo della guerra delle donne
contro le altre donne}}, una guerra spesso guerreggiata per tenersi un uomo
accanto che garantisca l’agio e lo status, oppure per un posto migliore e
più remunerato, oppure per le rare opportunità di potere negli apparati
politici ed economici.

Ma centinaia di anni di resistenza a questa guerra, (nella quale le
vincitrici sono state comunque sempre seconde al vero trionfatore, un uomo,
comunque) mi hanno resa certa che le donne, se vogliono, possono riuscire a
gridare forte la verità e l’indignazione per l’ingiustizia senza passare per
l’insulto e la svalorizzazione del proprio sesso e di un’altra donna.

{{Anche se l’altra è connivente con il sistema}}, anche se l’altra è agente
attiva della reazione, anche se l’altra si nutre del potere patriarcale più
bieco e se ne serve per fare carriera e denaro.

Il pensiero, e la pratica, femminista hanno indicato che non ci sono mezze misure: o ci si libera della strumentazione dell’oppressione (nel
linguaggio, nei comportamenti, nelle visioni) o la struttura del potere non
verrà intaccata davvero. {{Non possiamo smantellare la casa del padrone con gli attrezzi del padrone}}, scrive Audre Lorde, e ha ragione da vendere.

Qui non c’entrano né l’educazione, né il politicamente corretto: si tratta
di una scelta politica, libera, che ognuna di noi si assume se decide
pubblicamente, e legittimamente, di criticare un’altra donna. Certo, lo si
può fare nel modo più usato, tramandato, legalizzato da questo marcio e
infame sistema tradizionale di svalutazione del proprio genere: {{quello
dell’insulto di stampo sessuale}}, un’arma banale quanto efficace, da sempre
usata dagli uomini e quindi anche dalle donne, perché no? Essa è il primo
gradino della breve scalinata che, al suo apice, ha la violenza carnale come
massima manifestazione dell’inferiorità femminile da parte di molti uomini.

Oppure {{si può provare a dire dell’operato di una donna (e di un uomo) tutto
il male possibile, ma senza toccare i suoi genitali}}, le sue preferenze
sessuali, il suo orientamento, le sue frequentazioni e abitudini.

Anche se è al potere, anche se è pesantemente e inequivocabilmente
inadeguata al ruolo che ricopre. Che differenza c’è, altrimenti, tra i
mostri al governo che si danno gran gomitate e commentano (da sempre)
l’aspetto delle femmine che loro considerano come bottino, o fiore
all’occhiello, o merce di scambio, e chi li combatte?

La storia recente ci ha consegnato esempi straordinari di donne lontanissime
e potenzialmente micidiali nemiche che hanno scelto di trovare una strada
per lottare insieme non solo contro la guerra, ma anche contro i pregiudizi
che la casta patriarcale (equamente presente nelle loro culture) nutre
contro di loro.

Le {{donne in nero palestinesi e israeliane}}, per esempio, e non si sta
parlando di Monica Lewinski, ma di tragedie vere, di vendetta che si
trasforma in empatia, e rispetto.

Meno sanguinosamente pochi anni fa parlamentari di destra e di sinistra
(quando ancora c’era una sinistra in parlamento, e forse anche nel paese)
hanno indossato insieme {{magliette con su scritto ‘giù le mani dal corpo
delle donne’}}, e firmato assieme la legge contro la violenza sessuale: tra
loro Alessandra Mussolini e Livia Turco, solo per fare due nomi non certo
assimilabili, ed entrambe con le altre hanno denunciato che dagli scranni
maschili sono decollati fischi e apprezzamenti pesanti, manco a dirlo di
stampo sessista.

Quando le donne scelgono di cambiare la politica, la società, la loro vita e lo fanno insieme ad altre donne, talvolta anche con le avversarie, tutto il resto cambia. Lo sappiamo, e ne abbiamo le prove.

Quando le donne si limitano ad acconsentire al sistema di potere, (la
lezione della {{soldatessa di Abu Graib}} ce lo ricorda) o a supportarlo, anche
e soprattutto nel modo di criticare le loro simili, tutto resta immobile, e
il potere si nutre di questa conferma.

Allora, davvero è irrilevante e secondaria la scelta del modo di criticare
una donna, se la critica è fatta da una donna?

Per come stanno andando le cose in Italia quella di ieri di Sabina Guzzanti
è stata una {{scelta pesante, sbagliata e pericolosa,}} che in prima luogo le è
ricaduta addosso quando, nella notizia della immediata (e prevedibile)
querela da parte della ministra l’attrice è stata definita “figlia del
parlamentare di Forza Italia Paolo Guzzanti”.

Una figlia, una moglie, una sorella, un’amante (una che succhia l’uccello):
come a dire che, per quanto potere tu abbia, resti sempre una derivazione,
una appendice di qualche uomo variamente a te imparentato.