La mia quarantennale esperienza come avvocata del lavoro si è giocata negli ultimi quindici anni a stretto contatto con casi di prestazioni lavorative fortemente improntate alla flessibilità, introdotta nel nostro ordinamento giuridico a partire dalla seconda metà degli anni novanta (leggi Treu, Biagi/Maroni ecc.). Posso ben dire che, attraverso le mie clienti, la flessibilità me ne ha fatte vedere di tutti i colori. Solo per esemplificare. Alcuni casi si sono verificati in paesi della cintura milanese, ove industrie chimiche di media grandezza, usando l’interposizione di cooperative di lavoro, occupavano {{un nucleo stabile di lavoratori regolarmente a contratto e un numero circa triplo di lavoratrici flessibili}}, “a chiamata” per turni anche domenicali e notturni, retribuite “in nero”, appunto, dalle cooperative. Solo le più docili tra loro talvolta ottenevano qualche sporadico contratto a termine dall’azienda “madre” che dopo pochi mesi di lavoro “regolare”, le ripassava alla cooperativa, mentre continuava la loro adibizione allo stesso lavoro nella stessa fabbrica.

Altri casi si verificavano in uffici del centro di Milano, presso notissime società organizzatrici di sondaggi telefonici o telemarketing che mettevano all’opera intervistatrici retribuite a ritenuta d’acconto, ingaggiate anch’esse {{“a chiamata”}}, con turni, orari, livelli di produttività rigidamente prefissati dall’azienda, una sorta di cottimo d’altri tempi.

Altre volte è capitato che giovani e volonterose guidatrici, provviste di automezzo proprio, venissero spedite da imprenditori pubblicitari nelle province lombarde o piemontesi per reclamizzare catene di negozi e grandi magazzini, con {{promessa di retribuzione a giornata che poi veniva negata}} col pretesto che l’imprenditore non si considerava soddisfatto dell’attività pubblicitaria svolta, ritenuta insufficiente. Con la conseguenza che il tempo di lavoro e i relativi costi diventavano fatalmente una donazione forzata delle più povere ai più ricchi.

Fino al caso più recente di un importante corriere internazionale che per la consegna di plichi e merci in Milano non opera direttamente, ma subappalta il servizio ad un “padroncino” proprietario di automezzi.
Questi, a sua volta, ingaggia una coppia di addetti per ogni furgone, i quali devono provvedere alla consegna dei pacchi. O meglio, il “padroncino” subappalta il lavoro ad un autista che viene retribuito direttamente a fattura come lavoratore autonomo e l’autista frequentemente utilizza come secondo autista e trasportatore di merce dal furgone al recapito, {{la sua compagna, da lui stesso retribuita “in nero”.}} La donna non riceve un compenso proprio per il lavoro svolto, ma solo una parte del compenso altrui, senza mai essere titolare di un qualsiasi contratto, né mai diventare visibile come parte di un rapporto di lavoro.

L’esperienza professionale vissuta ha provocato il mio interesse per entrambi {{gli scritti pubblicati dalla Libreria delle donne di Milano nel Sottosopra e nel Quaderno di via Dogana}}.

Il più recente, {{“un manifesto del lavoro delle donne” in dieci punti}}, esordisce con un indirizzo alle lettrici che costituisce il filo conduttore di tutto il ragionamento, esprimendo la seguente convinzione: “oggi non trovi una sola donna che si senta categoria debole….nell’eterno gioco di rincorsa alla parità” e prosegue affermando: “….voglio dire la mia sul lavoro, sull’ambiente, sull’economia, sul futuro. Sulla politica meno: è già stato detto molto e non vedo molta disponibilità ad ascoltare. Anzi a me la politica par di farla solo quando riusciamo a dar parole pubbliche ai nostri punti di vista”

L’affermazione è troppo generale per essere condivisibile: è apprezzabile un invito a non ripiegarsi sull’autocommiserazione, lamentando una debolezza che deriva dalla appartenenza ad una “categoria sociale” svantaggiata, purchè, però, ci si intenda chiaramente sulle {{modalità (anche conflittuali) mediante le quali porre riparo collettivamente a situazioni economiche spesso assai deteriori}} che, in misura variabile, riguardano ancora oggi le lavoratrici dell’Europa mediterranea (dati Eurostat).

Una via è quella, indicata, di farsi carico di molte problematiche interconnesse, prendendo parola pubblica su tutti i temi evidenziati. Ma anche qui, non è comprensibile la contrapposizione proposta fra il desiderio di occuparsi con parola pubblica di argomenti socialmente rilevanti, quali ambiente, economia, lavoro e, d’altra parte, la contrarietà ad occuparsi di “politica”:{{ lo spazio pubblico è, in democrazia, lo spazio della parola}} che mette in comunicazione gli esseri umani rendendoli protagonisti di una cittadinanza partecipata; è un confronto incessante e uno scambio attraverso parole (anche conflittuali) che registrano una comune responsabilità nella sfera pubblica. {{Questa è politica.}}

Forse con l’espressione “politica” lo scritto intende riferirsi {{allo stato attuale della cosa pubblica}} cui è possibile accedere solo grazie al benvolere di oligarchi, professionisti della occupazione di tutte le strutture, anche istituzionali, o attraverso aperte cooptazioni o attraverso fittizie competizioni elettorali.

Occorre, allora, esplicitare il concetto e agganciarlo ad {{una critica della situazione presente}} perché, in caso contrario, si rischia di offuscare la possibilità di qualsiasi azione per il cambiamento.

Inoltre, {{vi è da chiedersi se sia possibile estraniarsi completamente dallo stato pietoso della politica attuale}}, se si desidera, come viene detto, incidere con parola pubblica nello spazio pubblico, ciò che comporta il condurre verso altro orizzonte i nostri destini per quanto riguarda l’economia, il lavoro, il futuro, l’ambiente in cui viviamo.

Quanto al lavoro, nel manifesto è giustamente ribadita {{la critica delle economiste femministe}} le quali da anni insegnano che i soggetti nei rapporti di produzione sono donne e uomini, che si verificano intrecci fra condizioni di vita e di lavoro. Qui, tuttavia, si dimenticano i conflitti che questi intrecci producono – a causa della doppia presenza femminile – nella struttura stessa del mercato del lavoro. Anzi, si sostiene {{una sorta di felice innesto nell’attività lavorativa di un sapere femminile sulla quotidianità}}: “un lavoro imprenditivo e creativo” che “non si vede nel PIL, non si vede nella busta paga, non si vede negli indicatori di benessere delle nazioni e degli individui”
L’assenza di compenso per questi apporti innovativi e preziosi, lungi dal determinare conflitto aperto, viene constatata pacificamente; si sottolinea, anzi, che esiste una “parola magica per rimuovere il conflitto: conciliazione tra i due lavori (produttivo e riproduttivo) per entrambi i sessi”.

Nel mondo reale ciò non si verifica, si ammette, ma, in ogni caso, le donne decidono: {{“Scegliamo tutto. Il piacere di stare con i figli e di lavorare bene. Il doppio sì”}}

Questo è, a mio parere, {{il fulcro di tutta l’argomentazione, già ampiamente sviluppata nel Quaderno omonimo di Via Dogana}}.

Si tratta del {{part time conciliativo}} che consente alle donne la doppia scelta del lavoro e della maternità, concetto in cui è inserito, sottaciuto, tutto il lavoro riproduttivo domestico e di cura famigliare, quale appendice normale; situazione che, inoltre, enfatizza le funzioni femminili, prolungandone l’efficacia (gratuita) anche nella prestazione lavorativa: si tratta di capacità relazionale/gestionale non prevista nell’entità della retribuzione.

Nel vantato favore femminile per questo tipo di contratto risulta {{completamente offuscato qualsiasi criterio materialistico di lettura della realtà}}: da quale posizione sociale e da quale reddito si parla, con quali ipotizzabili conseguenze sul benessere ovvero sulla povertà femminile e minorile nei casi di rottura della compagine famigliare (separazioni e divorzi), con quali riflessi sull’entità delle pensioni.

Anche {{l’elogio del lavoro di cura}}, quale modalità per un ampliamento delle conoscenze, dei punti di vista e delle capacità gestionali femminili, allude ad un concetto ambiguo, vero e contemporaneamente forzato in una limitazione dello sguardo sul mondo.

Non è dubbio, infatti, che {{l’ampliamento di conoscenze}} oltre che nel lavoro riproduttivo e nelle relazioni di cura possa conseguirsi attraverso il confronto fra culture (incontri, letture, formazione plurilingue, approfondimenti teorici, relazioni professionali multidisciplinari), mentre le capacità gestionali possono essere create e valorizzate anche attraverso lavori di organizzazione delle risorse condotti professionalmente e come tali retribuiti, non erogati gratuitamente.

Inoltre, {{l’articolazione dell’attività femminile giornaliera in molteplici campi}}, nel lavoro formale per il mercato e informale per la famiglia, spesso avviene a scapito delle conoscenze e degli approfondimenti culturali, anche della formazione continua, ormai richiesta per gli impieghi qualificati e ben retribuiti. La giornata essendo di ventiquattro ore per tutti.

La mia esperienza mi dice che{{ la valorizzazione delle doti femminili come leva per una flessibilità contrattata nel mercato del lavoro, riguarda settori percentualmente molto ridotti di occupazioni specialistiche}} e non può certo essere utilizzata per formulare regole generali.

La scelta del doppio sì definita come libera scelta materna, forse potrebbe essere {{interrogata come scelta conveniente perchè a-conflittuale}}, che si verifica per esigenze varie anche economiche, pur in assenza di condivisione dei compiti in famiglia. La rilevata mancanza di recriminazioni femminili intrafamigliari per scelte penalizzanti sul lavoro (blocco o regressione di carriera per cura dei figli), potrebbe trovare spiegazione nel {{“desiderio adattativo”}} (scelgo ciò che la cultura dominante mi indica come preferibile/obbligatorio), utile ad evitare il conflitto coniugale, mentre tale desiderio può regredire là dove la cultura (sindacale) autorizza il conflitto.

Inoltre, {{il pensiero che enfatizza la positività del doppio sì}} manca completamente di sottoporre ad esame il futuro di chi si carica della doppia presenza: basso reddito professionale destinato a creare nuove povertà per madri e figli minori, accorciamento della carriera lavorativa che determina pensioni insufficienti in età avanzata, segnata da bisogni superiori, in assenza di un welfare pubblico che vi provveda

La forte figura femminile ricompresa nella definizione di {{“donna realista ed elastica”}} pare alquanto fantasticata: ad uno sguardo attento appare piuttosto adattativa all’esistente e inconsapevole rispetto alla propria vita futura.

Purtroppo questa impostazione trova importanti {{consonanze sul piano legislativo, un piano di forte impatto simbolico e di sicuro condizionamento materiale per le vite di molte donne}}.

Mi riferisco al {{disegno di legge (DDL 784/09)}} presentato dal Partito Democratico nel gennaio 2009, recante “Misure per favorire l’occupazione femminile e la condivisione e conciliazione fra cura e lavoro” che non sembra destinato neppure a scalfire la situazione in atto attraverso una equa ripartizione dei compiti famigliari, poiché {{la conciliazione fra attività di lavoro produttivo e riproduttivo sembra ancora una volta a carico esclusivamente delle donne.}}

Basti dire che {{fra le provvidenze}} troviamo la concessione di una detrazione fiscale a favore delle lavoratrici madri a basso reddito di soli quattrocento euro annui per il primo figlio, la estensione del part time alle dipendenti del settore privato e l’elargizione di soli dieci giorni di assenza – retribuiti al cinquanta per cento dello stipendio- per cura dei figli neonati a favore dei padri.

Queste {{relazioni dispari fra i sessi}}, preoccupanti sul piano materiale perché determinano la precarietà economica delle donne, sul piano politico hanno precise ricadute sui diritti di cittadinanza e sulla qualità della democrazia: esse producono la {{estraneità delle donne dalla sfera pubblica}}, ciò che concorre a determinare una insufficienza degli assetti democratici.