A Falluja, città irachena del cosiddetto triangolo sunnita, dove l’opposizione alla presenza delle truppe occupanti fu estrema e coinvolse una parte importante della popolazione, la repressione militare anglo-americana assunse i connotati di una {{vera e propria rappresaglia,}} un annichilimento di ogni condizione umana. La città fu ridotta in macerie, come ci mostrarono allora le foto sulla stampa mondiale: immagini di distruzione e atrocità in una città assediata da giorni, con case sventrate e distrutte dai bombardamenti e da armi di cui non fu possibile conoscere la natura. {{Fallujia divenne allora il simbolo di quella guerra}}, delle sue atrocità, delle conseguenze nefaste per l’intera regione.

Oggi di quella vicenda non parla più nessuno e invece sarebbe il caso di riaprire il dossier. Ci sono cose infatti che non possono essere archiviate, soprattutto non possono essere messe da parte come se non ci riguardassero più. L’Italia diede il suo contributo per legittimare quella guerra, non solo a parole ma anche con l’invio di “uomini e mezzi”. Invece è stato steso su tutto un velo, anche dal governo dell’Unione, che ritirò le truppe e amen.

Per i prossimi giorni – l’11 giugno per la precisione – è prevista una visita del presidente Gorge W. Bush a Roma. Incontrerà il suo amico Silvio Berlusconi, nei confronti del quale ha già espresso giudizi lusinghieri e auguri di ogni bene, e ribadirà i punti salienti della sua interminabile politica di guerra nel mondo. Che dovrà continuare col suo successore repubblicano, il veterano Mc Cain: questo si augura Bush. Noi ovviamente speriamo di no e speriamo anche che il senatore Barak Obama non solo vinca le elezioni presidenziali ma, per quel che riguarda la politica estera degli Usa, faccia davvero la differenza col suo predecessore.

Il primo maggio di quest’anno è ricorso il quinto anniversario di quel giorno fatale, ormai dimenticato – primo maggio 2003 – in cui Bush si presentò sul ponte della portaerei Lincoln, appena rientrata dall’Iraq, per annunciare al mondo che la guerra contro Baghdad era finita. “{{Missione compiuta}}” era scritto sullo striscione issato sul ponte della Lincoln. “Missione compiuta” venne ripetuto dai media di tutto il mondo. Ma non era affatto vero e lo staff del presidente di lì a poco fu costretto a fornire la cosiddetta interpretazione autentica della frase, cercando di frenare una perdita di credibilità del presidente che allora cominciò e non si sarebbe più fermata. Il pantano iracheno dopo quello afgano e poi tutte e due; diritti volati e torture a Guantanamo e altrove, per esempio su navi fantasma, in giro per gli oceani, con l’appoggio, per quanto riguarda approdi e rotte, di chissà quali autorità portuali di quali Paesi. Non fine della guerra, così venne spiegato, dopo il grottesco annuncio dalla Lincoln, ma fine delle grandi operazioni di combattimento: questo voleva dire il presidente; fine delle manovre militari di invasione del territorio, fine dei bombardamenti, avvio della nuova era democratica del Paese. {{Ma non era finito proprio niente}}; tutto, al contrario, era all’inizio. Una guerra di occupazione lunga e sanguinosa che ha devastato l’Iraq, sconquassato gli assetti sociali, distrutto l’economia, annientato il funzionamento della macchina statale, attivato l’odio interreligioso tra sunniti e sciiti, fino a farne combustibile di una guerra civile strisciante e a tratti dirompente. Che dura, nonostante le rappresentazioni di comodo del comando statunitense e le assicurazioni a pioggia del generale Petraeus.

{{Che cosa e chi porterà via dall’Iraq i marines statunitensi?}} La guerra in Iraq è stata e continua a essere il laboratorio per eccellenza non solo delle strategie di dominance mondiale dell’amministrazione Bush; non solo delle modalità operative sul campo (per altro disastrose da un punto di vista strettamente militare, come molti alti ufficiali dell’esercito statunitense hanno più volte denunciato) ma di un’opera di erosione, programmata e ostinatamente perseguita dall’amministrazione statunitense, di messa sotto scacco di quello che neanche si può più chiamare “diritto internazionale”, tante sono le volte, le occasioni, le modalità di violazione dei suoi principi e delle sue regole. E di quelli che sono i diritti umani, sbandierati quando si tratta di coprire le ragioni vere di una guerra di dominance e sotterrati quando si tratta di costruire la rete di controllo su tutto ciò che può contrastare con i disegni gli obiettivi le priorità della potenza americana.

L’ong Reprieve denuncia che Washington utilizza {{17 navi militari per detenere, trasportare e torturare prigionieri della “guerra al terrorismo}}”. Il rapporto avanza anche il sospetto che alcuni dei prigionieri fantasma siano transitati attraverso le strutture della base militare britannica “Diego Garcia” nell’Oceano Indiano. Ammissioni in tal senso, ancorché vaghe, sono state fatte nel febbraio scorso anche dal ministro degli Esteri, David Miliband e Andrew Tyrie, presidente della commissione parlamentare sulle missioni-tortura, ha dichiarato che pian piano la verità sulle “renditions”, i micidiali sequestri di persona di cui è costellata la storia delle nuove guerr, sta venendo alla luce.

Anche da noi ci sarebbe da fare un lavoro in tal senso. Della guerra contro l’Iraq sono venute a galla tutte le macchinazioni gli imbrogli le bugie. Le armi di distruzione di massa, tanto per cominciare, il pericolo per la pace nel mondo che il rais di Baghdad avrebbe rappresentato e tutto il resto. Ma {{vengono a galla come fatti di cronaca}}, schegge messe in orbita grazie a schegge di giornalismo democratico o in conseguenza di brecce che si aprono negli e tra gli apparati delle intelligences occidentali. Non costituiscono materia della politica, della battaglia politico-culturale, dell’iniziativa parlamentare di qualche opposizione. Da noi per chissà ormai quanto tempo.

E’ lo spirito del tempo? Così pare ma non va proprio.