Continuano le partenze dalle coste libiche: migliaia di persone, uomini, donne e minori, in fuga dagli “orrori inimmaginabili” – come sono stati definiti in un rapporto dell’Onu dello scorso 18 dicembre – che si ripetono ogni giorno nei centri di detenzione in Libia, e dagli abusi delle milizie che controllano le rotte migratorie, a terra e nel Mediterraneo. Quel che ormai da tempo si mostra agli occhi indifferenti dell’opinione pubblica italiana ed europea – uomini torturati, donne abusate, ragazzi resi ciechi per le botte, schiavi venduti all’asta – non può più essere chiamato “inimmaginabile”: avviene con il supporto dell’Italia e dell’Unione Europea al Dipartimento libico per il contrasto dell’immigrazione (DCIM) e alla sedicente Guardia costiera libica, organismo fittizio in uno Stato privo di un’unica autorità centrale di coordinamento e di governo.

Le organizzazioni non governative ancora operanti nelle acque internazionali del Mediterraneo centrale (Open Arms, Sea Watch, See Eye e Mediterranea) hanno definitivamente squarciato il velo di ipocrisia che per mesi ha nascosto i naufragi e le intercettazioni operate dalle motovedette libiche, mentre i governanti europei – in particolare quelli italiani – vantavano i propri successi in quello che con un eufemismo hanno definito “contrasto all’immigrazione illegale”. Si tratta in realtà di una guerra che, lungi dal colpire i veri trafficanti, ha come bersaglio i migranti intrappolati nei centri di detenzione, che spesso vengono riportati nell’“inimmaginabile orrore” dopo essere stati intercettati in mare con l’assistenza delle autorità italiane (di base nel porto militare di Tripoli, ad Abu Sittah) ed europee (presenti nel mar libico con le missioni aeronavali di Eunavfor Med e di Frontex).

Il riconoscimento internazionale di una zona di ricerca e salvataggio (Search and rescue) di pertinenza delle autorità libiche – che il governo di Tripoli ha notificato all’Organizzazione marittima internazionale (IMO) alla fine di giugno 2018 – ha legittimato il trasferimento delle responsabilità di soccorso e sbarco dai governi europei (Italia e Malta in particolare) alle autorità delle principali città libiche – non potendosi neppure parlare di un governo nazionale.

Dopo i soccorsi di centinaia di persone che, negli ultimi giorni, hanno rischiato di annegare in alto mare, ad Est di Tripoli, i governi di Roma e di La Valletta hanno chiuso ancora una volta i porti. La nave Open Arms, dopo avere soccorso oltre trecento persone al largo di Zawia, è stata costretta a fare rotta verso la Spagna, e le richieste di Sea Watch, avanzate al termine di un’azione di soccorso, sono cadute nel vuoto, perché l’Italia e Malta si sono rifiutate di garantire un porto di sbarco sicuro, come è imposto dalle Convenzioni internazionali di diritto del mare. Per le persone soccorse dalle Ong, sembra essersi chiusa ogni possibilità di sbarco in Stati che da tempo hanno avviato, anche sul piano giudiziario, una feroce campagna di criminalizzazione del soccorso umanitario.

Di fronte a una politica di sbarramento e di sistematica omissione di soccorso, praticata in alto mare contro persone in fuga da paesi in cui è forte il rischio di perdere la vita o di subire trattamenti inumani o degradanti, chiediamo ai cittadini europei e ai loro rappresentanti parlamentari un’assunzione di responsabilità e un impegno a contrastare tali condotte istituzionali, affermando che non intendono rimanere indifferenti di fronte al susseguirsi dei naufragi in mare e dei trattamenti disumani nei centri di detenzione in Libia, o in altri paesi di transito.

CHIEDIAMO AI CITTADINI EUROPEI E AI LORO RAPPRESENTANTI DI PRODIGARSI CON OGNI MEZZO AFFINCHÉ:

a) qualsiasi riconoscimento della cd. zona SAR libica, di fatto abbandonata all’arbitrio dei libici, venga immediatamente sospeso, anche per l’assenza di un’unica Centrale di coordinamento nazionale dei soccorsi (MRCC). Occorre restituire certezza e legalità alle attività di ricerca e salvataggio nel Mediterraneo con una posizione chiara dell’IMO, a seguito dell’accertamento della carenza dei requisiti previsti a carico degli Stati per il riconoscimento delle zone di ricerca e salvataggio;

b) le autorità italiane e maltesi riprendano il coordinamento dei soccorsi in mare fino al limite delle acque territoriali libiche, a 12 miglia dalla costa, con il supporto degli assetti aeronavali di Eunavfor Med e di Frontex, come avveniva fino al giugno del 2017, senza ulteriori conflitti di competenza sulla ripartizione delle zone di soccorso;

c) sia garantito ai naufraghi individuati in acque internazionali, a partire da quelli ancora costretti a bordo delle navi umanitarie attualmente presenti nel Mediterraneo, il diritto allo sbarco in un porto sicuro, che, come confermano da tempo anche le Nazioni Unite, non può essere individuato in un porto libico;

d) si provveda con la massima tempestività alla redistribuzione dei naufraghi soccorsi dalle navi umanitarie sulla rotta del Mediterraneo centrale tra diversi paesi europei, nell’ambito di un accordo quadro, senza che le persone già provate dagli abusi subiti in Libia, e le navi soccorritrici, siano costrette a subire, ad ogni occasione di soccorso, ricatti incrociati e strumentalizzazioni politiche;

e) le attività di monitoraggio, ricerca e salvataggio delle Ong non vengano più criminalizzate, e le unità delle organizzazioni non governative possano continuare ad operare in acque internazionali sotto il coordinamento del comando centrale della guardia costiera italiana, come avveniva fino al mese di giugno del 2017.

Ribadiamo l’urgenza di veri canali legali di ingresso con visti umanitari, come richiesto anche da un recente voto del Parlamento europeo, e la necessità di riaprire canali di ingresso legale per lavoro. Solo in questo modo potranno essere contrastate le organizzazioni criminali che prosperano sul proibizionismo delle frontiere. Per questo è necessario un accordo tra diversi Stati europei, se non dell’Unione Europea nel suo complesso, dal momento che i paesi del gruppo di Visegrad (Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia, Polonia) seguiti adesso da Austria ed Olanda, non accetteranno tale opzione.

Siamo convinti che su queste richieste e su questo impegno si gioca la vera battaglia contro i partiti populisti e nazionalisti che rischiano oggi di cancellare il principio di solidarietà, tanto in Europa che in Italia, e le garanzie costituzionali dello stato di diritto su cui si basa la democrazia europea.

Rompiamo silenzio, indifferenza e rassegnazione, riprendiamoci democrazia e umanità.

Associazione Diritti e Frontiere – ADIF