Il libro di Antonella Ferri “Diario di bordo” (edizioni Tullio Pironti) sarà presentato a Napoli, Libreria Io Ci Sto di piazza Fuga,

Venerdì 17 gennaio alle ore 18.00.

Dialoga con l’autrice Angela Procaccini. Modera Francesca Moccia.

 

A scuola di umanità in carcere. Spezzare le sbarre attraverso l’istruzione. 

Recensione di Paola Garofalo

Durante la lettura del Diario di bordo di Antonella Ferri mi è tornata in mente più volte una preziosa massima di Aldo Moro, che ho appreso non molto tempo fa: «la persona prima di tutto». Ed è, questa, una dichiarazione di principio che mi rimanda naturalmente all’art. 27, co. 3 Cost., che definisce la tensione finalistica delle pene come orientata alla rieducazione, e, allo stesso tempo, all’art. 1 della legge 354/1975, in base alla quale «il trattamento penitenziario deve essere conforme ad umanità e deve assicurare il rispetto della dignità della persona».

Sebbene al concetto di pena venga attribuita un’indole afflittiva apparentemente ineliminabile, la funzione ultima della pena, specialmente nel momento della sua esecuzione, va, quindi, individuata nella rieducazione, che è da intendersi come un percorso volto al recupero sociale del condannato e, pertanto, alla sua risocializzazione al fine di eliminare i fattori esogeni che hanno contribuito all’adozione di quelle scelte comportamentali che hanno condotto alla condanna.

Alla luce di queste premesse di principio che appartengono alla mia formazione di studio, l’ordinamento ha eletto il trattamento quale strumento volto al conseguimento della finalità rieducativa.

L’istruzione, come anche il lavoro, è parte essenziale di quell’insieme di attività che costituiscono il trattamento.

L’istruzione ex se è uno strumento di sviluppo della personalità, costituzionalmente garantito a tutti i cittadini – anche quelli in vinculis –, mediante il quale l’individuo viene (ri)avvicinato ai valori socialmente condivisi ed alla cultura. L’istruzione assume, quindi, un ruolo fondamentale in un mondo, quale quello carcerario, in cui si è verificata una frattura tra individuo e società, oltre che con i valori che la fondano, non per spingere nel senso di un acritico adeguamento ad essi, ma come scelta di lavorare su se stessi per crescere umanamente.

La cultura, l’istruzione sono forse gli aspetti del trattamento che concettualmente più si collegano al principio di dignità che dovrebbe caratterizzare anche il momento dell’esecuzione della pena, perché costituisca una sorta di “allenamento” volto ad un consapevole ritorno nella società.

Alla luce di queste riflessioni mi sono accostata alla lettura del Diario di bordo di Antonella Ferri, non sapendo dove questo libro mi avrebbe portata.

«La perfida prof.», narra con semplicità nello stile e con una buona dose di ironia, tanta sensibilità e – soprattutto – autenticità di parole e di contenuti il percorso di un anno di scuola in carcere, attraverso la voce alternata dell’insegnante e dei diversi studenti che si mettono in gioco ciascuno con i propri mezzi espressivi. Da ogni pagina di questo libro emergono l’umanità dell’Autrice e l’umanità dei suoi allievi, che di umanità sembrano essere maestri nonostante le scelte sbagliate. Inaspettata è la loro spiccata profondità di riflessione: Attanasio, che riconosce la poesia nell’autenticità di pensiero e di sentimenti; Sergio, che si premura di ringraziare «chi lo merita e chi pensa di non meritarselo»; Gennaro, che comprende il valore di quello che sta facendo ed imparando, quando equipara il vuoto tempo trascorso nella cella a quello sprecato seguendo insegnanti che non offrono altro se non pesantezza ed inutilità nelle parole; Michele – per cui non ho potuto non nutrire simpatia, per essermici rivista in parte –, che riconosce la sua fragilità e la necessità salvifica dei legami che fanno tornare la gioia di vivere e di rimettersi in gioco; Thomas, che pur di liberare la sua impellenza di espressione chiede di usare una lingua diversa dall’italiano. Una “foto di classe” che mi ha fatto dimenticare più di una volta che gli studenti hanno le manette ai polsi – come nella simbolica immagine di copertina –, ma che me li ha fatti guardare con empatia e con una certa tenerezza, anche se sappiamo che questa situazione non costituisce la regola.

E, allora, è quando si legge di tanta volontà propositiva che poi diventa legittimo pensare che effettivamente un percorso trattamentale svolto con dedizione possa tradursi in «una truffa», per usare un’espressione di un anonimo studente, riportata nell’introduzione dalla stessa Autrice. Perché mostrare alle persone – detenute, ma pur sempre persone, non va dimenticato – il proprio potenziale e investire in questo percorso porta a raggiungere coscienza di se stessi, alla speranza di essere la versione migliore di se stessi, finendo poi per scontrarsi con la pressoché totale assenza di opportunità di reinserimento, lavorativo e culturale, una volta fuori dal carcere.

In questo piccolo libro si trovano pagine che sfidano i pregiudizi e che aprono la mente e il cuore a sentimenti di speranza e conoscenza. Anzi conoscenza speranzosa, con la consapevolezza che il “dover essere” non è una meta irraggiungibile – come ci siamo abituati a credere –, ma un obiettivo tendenziale cui mirare con impegno e passione.

In conclusione, mi auguro di aver usato la giusta sensibilità necessaria a raccontare le pagine di questo libro e l’intento autentico dell’Autrice, aprendo uno “spioncino” su un mondo parallelo chiuso da un blindato che è giusto conoscere.