Per il 25 novembre, Giornata mondiale contro la violenza alle donne, desidero rendere pubblica questa mia riscrittura dell’Inno a Demetra.

 L’Inno a Demetra è il primo racconto di violenza su una donna, Persefone, dea figlia di dea, rappresentazione della potenza generativa della natura, che viene rapita e implicitamente posseduta dal fratello del padre, Ade dio dell’oltretomba fratello di Zeus, re dell’Olimpo patriarcalizzato, il quale dà il suo consenso allo stupro. L’atto di violenza, consumato in ambito strettamente parentale, spezza narrativamente l’Età dell’Oro rappresentata nella magnificenza dei fiori e dei giochi delle giovani che erano con Persefone. L’Inno prosegue con il racconto dell’inesausto peregrinare di Demetra, la madre terra, alla ricerca della propria figlia.

Nel corso di un viaggio compiuto assieme a mia figlia qualche anno fa nei siti greci sacri a Demetra e Persefone mi sono resa conto dell’illeggibilità, ad una sensibilità femminile odierna, delle versioni in circolazione, troppo auliche e con evidenti retaggi patriarcali, che tuttavia non si presentavano come strutturali. Ho riscritto l’Inno cercando di restare il più fedele possibile alla versione che ci è giunta, catalogata come pseudomerica e variamente rimaneggiata nel tempo soprattutto nella parte finale, con il desiderio di restituirle l’originario senso genealogico femminile indicato dalla presenza di Ecate sia all’inizio, nella funzione di aiutante di Demetra angosciata per il rapimento della figlia Persefone, che alla fine, quando la figlia torna alla madre.

Molti indizi presenti nella narrazione si configurano come sopravvivenze di un antico rito di passaggio femminile caratterizzato dalla consegna da madre a figlia del melograno, simbolo di potenzialità creativa (l’Inno patriarcalizzato ribalta questa ricchezza nel suo opposto, facendo del melograno un simbolo di separazione, anziché di continuità). Scevro da rivalità tra i personaggi femminili, che sono invece solidali tra loro come parti di una stessa essenza, l’Inno trasmette vivido e vitale il ritrovato legame affettuoso tra generatrice e generata, oltre la separazione causata con la violenza. Ho scelto pertanto di interrompere coerentemente il racconto dove Demetra e Persefone si ritrovano e dove, con la presenza di Ecate, la genealogia femminile si ricostituisce e si riconosce.

Il mio intervento mitopoietico è minimale, desideravo lasciare intatto e riconoscibile il racconto anche nella sua contradditorietà. L’Inno a Demetra da una parte racchiude il prezioso mitologema della felice ricongiunzione tra madre e figlia, dall’altra inizia entrambe alla possibilità effettiva del loro futuro distacco. Questo distacco, naturale come quello di un frutto che si stacca dall’albero, viene reso difficile quando l’iniziazione sessuale femminile avviene a sfregio della volontà della giovane e in dispregio alla madre al cui seno questa viene strappata. Ne consegue l’iperprotettività materna, che guarda caso sembra manifestarsi soltanto in contesti patriarcali caratterizzati dalla cultura dello stupro. Da qui il passaggio dove la mia Demetra – in rispetto alla libertà della figlia – sospende il giudizio in merito alla doppiezza del maschile. Ma questo è punto che mi riservo di rivedere con chi avrà desiderio di discuterne.

Ho riflettuto a lungo anche sui problemi metodologici relativi ad una nuova versione, che alla fine si colloca più sul versante della riscrittura che della rielaborazione, essendo rimasto il racconto (in greco: mitos) nell’essenza intatto, mondato da alcuni arcaismi e lievemente aggiornato con i pronunciamenti di Ecate redatti alla luce dell’esperienza storica. A parte questo, ho operato una rivisitazione stilistica che tiene in considerazione la sensibilità di genere. Sarà apprezzato, ad esempio, il fatto che gli epiteti fastosi dedicati al padre fedifrago – il sommo Zeus – siano contestualizzati in modo da farne risaltare l’ironia. Estranea al testo originario è invece la richiesta di perdono da parte di Ade a Persefone prima dell’ascesa di lei alla luce, che ho ritenuto necessaria per rendere credibile nell’oggi l’eventuale ritorno periodico della giovane dea alla terra degli inferi.

Nella compresenza di tanti complessi elementi, l’Inno a Demetra – di enorme valore formativo – non poteva restare incartato in un andamento retorico né celato in funzione di prescrizioni liturgiche, ma andava riscoperto e consegnato all’oggi. Ho intrapreso la riscrittura quest’estate pensando a chi, visitando i luoghi del Mediterraneo sacri a Demetra e Persefone, ancor più le avrebbe amate se avesse potuto accostarsi in modo Semplice al loro mito. Poi ho lasciato decantare questa riscrittura, il tempo necessario a ricordare con pienezza il mio diritto a porvi mano in quanto, per consapevole genealogia materna, provengo dalle terre dove questo mito è nato. Lo dedico quindi a mia madre e a mia figlia.

 

Antonella Barina   Figlia di Vita  Madre di Mita

INNO A DEMETRA

Riscrittura di Antonella Barina

 

Dei mondi che gli umani nella loro piccolezza erano soliti narrare

vi è il mito in cui Ecate, Demetra e Persefone erano benigne e solidali.

Questo era quando le comunità umane erano gestite dalle belle madri.

A quei tempi il melograno era il dono che madre e figlia si scambiavano

al passaggio d’età quando una tramonta e l’altra sorge come luna piena.

Allora i parti erano assistiti dalle anziane, sorgenti e pietre erano sacre.

Ma quando le leggi dei padri presero il sopravvento fu tempo di guerra

e sangue infecondo scorse nelle piane a insanguinare i fiumi e i monti.

Nessuno scampava, ogni aurora era funestata da nuove truci battaglie.

Le giovani furono alla mercé dei maggiorenti, le madri nulla potevano.

In questo tempo intermedio, con l’aiuto di Ecate la luna, Demetra lottò

per liberare la propria figlia Persefone dopo che Ade, dio degli Inferi,

d’accordo con il fratello Zeus, re dell’Olimpo, l’aveva rapita Nissa,

entrambi Giove ed Ade essendo patricidi figli di Crono, perpetuanti

la legge maschia e crudele del potere che solo uccidendo si rinnova

e il crimine si aggiusta per la ragion di stato che occulta il crimine.

Benedetti quelli che intendono il linguaggio dei fiori e non mettono

le giovani alla mercé di gerarchie che ignorano la forza dell’amore

Benedette quelle che non si fan sottomettere e lottano per se stesse

come per le altre e alla lunga vincono ogni battaglia intrapresa.

 

Io canto la dea dai capelli magnifici, Demetra la grande,

canto di lei e di sua figlia dalle belle gambe rapita da Ade,

cosa che l’oscuro tonante onnipotente Zeus permise

di nascosto alla dea dei frutti e alla sua ascia fulgente,

mentre Persefone, Core, la fanciulla, giocava con liete compagne

e nel prato coglieva rose in boccio e fiori di croco

e viole profumate e iridi e giacinti e il narciso il quale

per comando di Zeus tradì la giovane dagli occhi gentili

che stava ammirando quel frutto della Terra a tutti donato,

un prodigio di fiore che incanta genti e dei, mortali e immortali.

Dalla radice del fiore crescevano cento corolle spandendo

un profumo irresistibile che arrivava al cielo

e faceva gioire la terra e le onde salate del mare.

 

Incantata Persefone tese le mani per cogliere quel nuovo dono,

ma la terra si aprì in una grande voragine nella pianura di Nissa,

nel cuore della Sicilia antica, nel centro del mondo di allora

e cavalcando cavalli immortali ne uscì colui che accoglie i morti,

il re degli Inferi dai molti nomi, Ade re dell’Ade, colui il cui nome

non si pronuncia per timore si esserne catturati, il figlio di Crono.

Ah, l’avesse il padre divorato allora, quando temeva di essere spodestato!

Contro la volontà della giovane la rapì traendola su un cocchio d’oro

E la portò via anche se lei si dibatteva e piangeva gridando forte

e chiamava in soccorso Zeus, suo padre che dall’alto l’aveva tradita,

l’ottimo e sommo Zeus, il fratello di Ade!

Nessuno tra i mortali e gli immortali sentì quelle grida, nemmeno

i fastosi ulivi dai rami colmi di frutti, né le giovani dee che erano con lei.

Solo la potente Ecate, la levatrice, la più antica tra tutti gli dei,

l’aveva sentita dal suo antro, la limpida Ecate coperta di bianchi veli,

solo Ecate e il Sole là in alto, il Sole figlio di Iperione il titano,

solo loro udirono Persefone chiamare invano Zeus suo padre

che se ne stava seduto distante e tranquillo nel proprio tempio

a ricevere le offerte con cui i mortali per timore lo omaggiano.

Così Persefone fu rapita su cavalli immortali dal senza nome

dai molti nomi, colui che accoglie e assoggetta, Ade figlio di Crono.

Rapita proprio per volere del grande Zeus, che del glorificato Ade è fratello!

E pur nell’angoscia Persefone aveva in cuor suo ancora la speranza

di rivedere la cara madre e la stirpe eterna degli altri dei. Sperò finché

ancora scorgeva la terra e le stelle del cielo e il mare dai gorghi violenti

e la luce del sole, poi quando fu sottoterra alzò un ultimo acutissimo grido.

La sua voce immortale riecheggiò tra le vette dei monti e gli abissi marini

e così fu udita dalla generosa Demetra, sua madre.

 

Un’angoscia furiosa invase allora il cuore di Persefone,

con le sue stesse mani si strappò i veli verginali

e si coprì le belle spalle con un manto funebre.

Con ali di uccello Core cercò di trovare una via di fuga,

ma nessuno tra gli dei e i mortali dette notizia del rapimento

e dagli uccelli non le giunse alcun augurio di salvezza.

Da quel momento per nove giorni la sovrana madre Demetra

percorse la terra cercandola con in pugno le sue fiaccole infuocate.

La signora del grano e dei papaveri per cercare la figlia non una volta

si nutrì di ambrosia né si ristorò di nettare e neppure si immerse in lavacri.

Quando Demetra vide sorgere la decima nitida Aurora,

Ecate le venne incontro reggendo anche lei una torcia in mano,

cercando di trovar voce per parlare di quanto era avvenuto:

 

“Demetra, tu che sei dono d’estate e sovrana ricca di doni,

chi tra gli dei dell’Olimpo, chi tra i numi, chi tra i mortali

ha rapito Persefone e tanto tristemente ha colpito il tuo cuore?

Io, Ecate, ho sentito Persefone gridare, ma non ho visto

chi sia stato a rapirla, posso solo darti conferma che è vero”.

Così disse Ecate, e Demetra non proferì parola, ma subito

stringendo le fiaccole nel pugno contratto si pose al fianco di Ecate

e insieme giunsero fino al Sole che illumina uomini e dei.

Ritta davanti al suo cocchio Demetra la splendida chiese al sole:

“Sole, serbami il rispetto dovuto a una dea se mai prima d’ora

mi hai amato profondamente per le mie parole o gli atti del mio animo.

Il dolce germoglio che ho partorito, la mia luminosa figlia!

Sì, nell’aria ho udito chiaramente il suo grido di angoscia

come stesse subendo violenza, ma non l’ho visto con i miei occhi.

Tu, Sole, che dall’alto posi splendido i tuoi raggi su mare e terra

dimmi sincero se mai hai visto la mia creatura, dimmi chi

con la violenza e contro il suo desiderio l’ha rapita con la forza

ed è fuggito defraudandomi di lei. Chi è stato tra gli dei o i mortali?”.

 

Demetra disse così. E il figlio di Iperione le rispose sinceramente:

“Demetra, sovrana, madre e figlia di te stessa, ti dirò ogni cosa.

A te porto il rispetto che si deve a una dea e di te ora ho pietà:

sei in angoscia per la tua figliola dalle snelle caviglie e nessuno

tra gli immortali, se non suo padre Zeus, padrone delle nubi, ne ha colpa.

Lui è stato ad offrirla ad Ade, al suo regno, per farla sua sposa,

quel suo fratello di sangue l’ha trascinata via sul proprio carro

nel buio cupo delle nebbie, l’ha presa anche se lei urlava forte.

Dea, frena l’amarissimo pianto, è inutile l’immenso rancore

che ti consuma. Tra tutti gli dei, a quell’Ade che molti assoggetta

tu stessa sei legata da vincoli di sangue e ti è congiunto. Pensaci.

Perché rischiare? Presto Ade potrebbe non essere per te indegno genero.

Ade gode di grandi onori da quando all’inizio tutto fu diviso in tre parti,

a lui è toccato in sorte il mondo dei morti su cui ora regna sovrano”.

Ciò detto, il Sole incitò i suoi cavalli e questi come uccelli dalle ali tese

rispondendo al suo ordine svelti ne trassero via il carro al galoppo.

 

Un dolore ancora più atroce, un morso di cane, scese nel cuore di Demetra.

Odiando Zeus il Cronide, il sovrano delle nuvole nere, la dea si allontanò

dal concilio degli dei, rinnegò l’alto Olimpo e andò errando di città in città

attraversando i continenti, da allora nascondendo la propria bellezza

alle genti. Chi la incontrava non vedeva più la stupenda dea che era stata.

Giunse così ad Eleusi, nell’Attica d’Occidente, nei pressi della casa di Celeo,

il quale a quei tempi era il generoso sovrano della città che odora di incensi.

Continuando a macerarsi nel cuore, Demetra fece sosta dove la gente

attingeva l’acqua che sgorgava da sopra un grande albero di ulivo,

al Pozzo Partenio consacrato dai canti delle Vergini, e lì si sedette.

 

Aveva assunto sembianze di donna in età, avanti negli anni e non più fertile,

ben lontana dai doni amorosi dell’inghirlandata dea, l’amica Afrodite:

così i principi destinati a diventare fonte di legge a volte si rivelano

a chi è giovane, come da balie che li dispensano in echi di memoria.

Lì la incontrarono le figlie di Celeo, re di Eleusi, venute alla fonte

per raccogliere l’acqua in brocche di bronzo da portare alle case,

quattro giovani belle come fiori appena sbocciati, belle come dee,

Callídice e Cleisídice, Demo l’amata e Callíroe, la maggiore di tutte.

Non riconobbero Demetra, non è facile ai mortali riconoscere il divino.

La avvicinarono pronunciando parole che volavano nell’aria come farfalle:

“Vecchia, chi e di dove sei, di quale gente? Chi sono i tuoi antenati?

Perché resti lontana dalla città e non ti avvicini alle case?

Da noi le donne della tua e di altre età abitano assieme in stanze ospitali,

volentieri saresti accolta tra di loro con parole e gesti di amicizia”.

 

La dea sovrana parlò, rispondendo alle figlie di Celeo:

“Io vi saluto, chiunque voi siate, figlie che vivete tra le donne,

a voi racconterò quello che non è sconveniente narrare

dato che me lo chiedete. Il nome che mi dette mia madre è Ga.

Vengo da Creta, sono stata portata qui via mare contro il mio volere,

costretta a forza da predoni giunti in nave a Torico d’Attica

i quali fecero scendere come un gregge le donne che tenevano prigioniere

per far preparare il pranzo vicino agli ormeggi di poppa.

Per quanto invitante io non presi parte al banchetto, ma balzai

a terra e fuggii da quei superbi padroni perché non volevo

che avessero da guadagnare, vendendomi senza avermi comprata.

Vagando sono arrivata fin qui, ma di questa terra non so nulla,

né che terra sia né chi ci vive. Ora, augurandovi che gli dei abbiano

in serbo per voi un futuro di spose soddisfatte e madri di figli riconoscenti,

vi supplico di dirmi da amiche se c’è una casa che mi può accogliere.

Sono disposta a far lavori adatti a un’anziana come cullare un neonato

o fargli da balia, custodire la casa, preparare il letto ai padroni

o addestrare al lavoro le giovani donne”. Così disse la dea,

che aveva scelto di presentarsi loro con il nome più antico della Terra, Ga.

 

Callidice la vergine, più bella tra tutte, rispose prontamente:

“Nonna cara, pur con angoscia tutte e tutti dobbiamo sottostare al volere

degli dei che sono molto più forti di qualunque umano, ma io

ti dirò con chiarezza i nomi di tutti coloro che governano la città,

quelle e quelli che tra il popolo spiccano perché custodiscono le tradizioni

con i loro consigli profondi e con le loro giuste sentenze.

Vi è Delphina alla quale si rivolgono i saggi quando devono decidere.

Vi sono Aracne che insegna a tutte la tessitura, Amalthea che conosce

i segreti del latte, Dionisia che governa i tempi dell’uva e tra tutte noi

a portare il riso con le sue parole e i suoi motti vi è la saggia Baubo.

Saggio e ingegnoso è poi Trittolemo, e con lui Dioclo e Polisseno,

impeccabile è Eumolpo, infine ci sono Dolico e il nostro nobile padre.

 

Le donne lavorano in casa e la custodiscono e nessuna di loro

quando ti vedrà disprezzerà il tuo aspetto o ti caccerà via.

Anzi, ti riceveranno, perché assomigli ad una dea, davvero.

Resta qui dunque, se vuoi, spiegheremo ogni cosa con cura

a nostra madre Metanira e lei ti inviterà a casa nostra, non dovrai

cercare altra casa. Nel nostro confortevole palazzo nostra madre

sta crescendo l’ultimo nato da lei tanto sperato e atteso con gioia.

Se saprai assistere questo suo figlio prediletto e farlo crescere bene

la ricompensa che ne riceverai ti renderà invidiabile da ogni donna”.

Così disse Callidice e la dea fece un segno di assenso con il capo.

Allora le giovani felici riempirono i vasi di bronzo e li portarono

a casa dove subito spiegarono ogni cosa alla loro madre e questa,

Metanira, ordinò che corressero a chiamarla, cosa che le giovani

fecero subito saltando come cerbiatte nella stagione di primavera,

quando sono sazie e felici per aver ben pascolato. Correndo tenevano

le vesti sollevate sul sentiero accidentato e i capelli ondeggiavano

sulle loro spalle come petali di fiore di croco nei prati mossi dal vento.

Trovarono Demetra dove l’avevano lasciata e nella propria casa

condussero la dea con il capo velato, avvolta nel suo fluttuante e nero peplo.

Giunte alle case di Celeo, fedele di Zeus, traversarono il portico.

Metanira era seduta vicino al pilastro centrale della casa con in braccio

il suo nuovo piccolo fiore. Le figlie corsero incontro alla dea che si presentò

alta sulla soglia, toccando la porta con il capo, riempiendola di splendore.

 

In Metanira quella visione suscitò rispetto, stupore e uno strano terrore,

tanto che si alzò dal proprio trono e invitò la dea a sedersi al suo posto.

Demetra, la donatrice di messi, la ricca di doni che dona ricchezza,

non accettò però di sedersi su quel trono fulgido, ma rimase in silenzio,

tenendo i begli occhi abbassati finché Baubo, la portatrice di sorriso,

non le porse un sedile sul quale aveva steso una candida pelle.

Lì la dea si sedette, continuando a celarsi con il velo serrato nella mano,

e lì rimase continuando a tormentarsi muta, ferma, sempre senza parlare,

senza sorridere, senza accettare cibi o bevande, pensando alla figlia perduta.

E questo finché la saggia Baubo non le si rivolse con motteggi indicibili

forzandola prima a sorridere e poi costringendola al riso, ridandole

una letizia d’animo che la dea aveva dimenticato: per questo da allora,

e per sempre, Baubo è cara a Demetra, che la porta amatissima nel cuore.

 

Allora Metanira le offrì un calice di vino mielato, ma la dea rifiutò,

perché, disse, non le era consentito bere vino rosso. Chiese invece

da bere dell’acqua mescolata a farina con l’aggiunta di diverse erbe,

che alcuni dicono esser malva, altri orzo, altri menta e altri erbe dei sogni.

Metanira mescè quello che la dea aveva richiesto e glielo porse:

così, accettandolo, Gà, la Terra, la sovrana Demetra, sancì il proprio rito.

 

Fra tutte poi parlò Metanira, la madre dalla bella vita sottile.

“Salute a te, donna. Non credo che tu sia nata da gente qualunque

perché i tuoi occhi irradiano quel rispetto e quella nobile grazia

che sono proprie delle stirpi regali. Pure tutti e tutte dobbiamo

pur se con angoscia sottostare ai capricci degli dei, questo è il giogo

che abbiamo sul collo. Ma fra di noi tu avrai tutto quello che ho anch’io.

Tu alleverai il bambino che ho avuto quando avevo smesso di sperare.

È venuto e lo amo sopra ogni cosa. Se saprai allevarlo e farlo crescere

nel modo migliore la mia ricompensa sarà tale che ogni donna ti invidierà”.

E Demetra, la dea delle ghirlande, rispose a Metanira:

“Donna, salute anche a te, che gli dei ti siano propizi. Seguirò al meglio

tuo figlio come mi chiedi. Lo alleverò e nessun maleficio o erba maligna

potrà nuocergli perché conosco una cura più forte di ogni veleno che

a qualsiasi maleficio oppone valida difesa”. Detto ciò accolse il bimbo

in braccio appoggiandolo al suo seno profumato e la madre ne fu lieta.

 

Così Demetra cominciò ad educare nel palazzo il bellissimo bimbo

di nome Demofoonte, partorito da Metanira la bella, figlio di Celeo.

E la creatura crebbe senza bisogno di mangiar pane o bere latte,

perché Demetra Gà lo ungeva di ambrosia come fosse un figlio divino

e respirava su di lui stringendolo al petto. In più, di nascosto

alla madre e al padre, di notte lo esponeva alla calda forza purificatrice

del fuoco sopra cui lo teneva come fosse un tizzone. Ai genitori parve

un prodigio il crescere precoce del figlio e l’aspetto che aveva di un dio.

Demetra l’avrebbe reso immortale, immune alla vecchiaia, se per disgrazia,

non trovandoli a letto, una notte Metanira non l’avesse spiata.

Temendo per la vita del figlio gettò un grido e si batté i fianchi disperata

e piangendo, dissennatamente turbata nel profondo, disse di getto:

“Demofoonte, figlio mio, che fa questa straniera? Ti immerge

in un gran fuoco e mi getta nella disperazione e nella pena!”.

Disse così, lamentandosi, e quelle parole prive di fede furono udite dalla dea.

Grande sorse in Demetra la collera contro colei che aveva interrotto il rito.

Con le sue braccia immortali spinse lontano da sé il piccolo

nato oltre ogni speranza e adirata ne rimproverò con rabbia la madre:

“Umani privi di senno, incapaci di prevedere la sorte che vi attende nel bene

e nel male! Tu, incapace di fiducia, tu nei miei confronti hai sbagliato”.

 

“Mi siano testimoni le acque dell’infero Stige su cui noi dei giuriamo,

io tuo figlio l’avrei reso immortale, immune per sempre da vecchiaia

e per tutti i suoi giorni gli avrei dato infiniti privilegi, ma ora non potrà

più sfuggire agli artigli delle Chere, gli spiriti femminili della morte.

Demofoonte avrà tuttavia per sempre l’onore infinito di aver riposato

sulle mie ginocchia e tra le mie braccia. A lui – sentenziò – dedicherete

le feste e i giochi nei quali i giovani di Eleusi si affronteranno ogni anno.

Io sono la luminosa e onorata Demetra, quella che dispensa gioia

e supremo conforto a mortali e immortali. Concedo al tuo popolo

di erigere un grande sacrario e un’ara a me dedicati vicino

alla rocca e alle mura di Eleusi sulla collina sopra la fonte Callicora.

Sarò io a insegnarvi, io in persona, i miei riti, in modo che in futuro

li celebriate degnamente per continuare a placare la mia ira e salvarvi”.

 

Alla fine di questo pronunciamento, la dea mutò in statura e figura

svestendosi della forma di vecchia e manifestando la propria bellezza.

Intorno si diffuse la fragranza delle essenze di mille e mille fiori

e il suo corpo immortale si illuminò di luce radiosa. Biondi capelli

le si allungarono folti fino alle braccia e come colpita da un fulmine

la casa si riempì di quella scintillante insospettata visione di luce.

Demetra uscì dalle sale del palazzo. Intanto la povera Metanira

sentiva venirle meno la forza alle ginocchia. Rimase a lungo impietrita,

dimenticando perfino di sollevare da terra il suo bimbo prediletto.

Furono le sorelle, svegliate dai pianti del piccolo, ad accorrere

ed una lo prese tra le braccia stringendolo al seno, l’altra ravvivò

il fuoco, la terza accompagnò la madre a letto vivificandolo di essenze.

Affollandosi intorno con ogni cura lavarono il bimbo scalciante,

ma il piccolo non smetteva di piangere perché non c’era paragone

tra loro e quella che gli era stata fino a poco prima balia e nutrice.

 

Per tutta la notte le giovani cercarono di placare la dea gloriosa che

la loro madre non aveva saputo riconoscere e tremavano di terrore.

Quando sorse l’Aurora, andarono dal padre Celeo annunciandogli

quello che la dea delle ghirlande aveva comandato. Il potente Celeo

chiamò allora in adunanza tutte le genti del suo popolo e ordinò

la costruzione di un magnifico santuario e che fosse eretta un’ara

sulla collina sopra Callicora, dedicati a Demetra dalle splendide chiome.

Il popolo ascoltò Celeo e gli obbedì. Poi, quando ebbero concluso

quella fatica, ciascuno tornò alla propria casa. Avevano eretto

il nuovo tempio che sorse, magnifico, in onore a Demetra.

La dea vi prese posto all’interno, lontana da tutti gli altri dei, perché

non cessava in lei l’angoscia per la bella figlia che le era stata rapita.

Quell’anno la Terra che tutti nutre fu spaventosamente sterile

e non rilasciò alcuna semenza per l’anno a venire, poiché per il dolore

Demetra nascondeva ogni seme dentro di sé senza lasciarlo germogliare.

Invano i buoi trascinavano su e giù per i campi gli aratri ricurvi,

i semi del candido orzo cadevano a vuoto nei solchi senza dar frutto.

Moriva di fame la stirpe degli umani già per sorte destinati a morire,

né gli dei avrebbero avuto in dono altre offerte e sacrifici propiziatori.

 

Allora, solo allora, Zeus prese atto di quanto avvenuto e cercò

di rimediare chiamando Iride, la signora dell’arcobaleno, la messaggera

dalle ali dorate, affinché andasse a parlare a Demetra la splendida.

Iride obbedì al signore delle nuvole nere, a Zeus, figlio di Crono,

e raggiunse la rocca di Eleusi da cui si alzava il profumo degli incensi

e, trovata nel sacrario Demetra ancora avvolta nel velo del lutto, disse:

“L’onnipotente Zeus ti chiama, Demetra, vuole che ti presenti al cospetto

delle schiere dei numi immortali. Vieni, non ignorare il suo ordine”.

Iride pregò Demetra di ascoltare Zeus, ma non riuscì a convincerla.

Allora il re degli immortali mandò da lei tutti gli dei e ognuno di loro,

uno dopo l’altro, portavano grandi magnifici doni e la supplicavano

di accettarli, ma nessuno riuscì a piegare il suo cuore e la sua mente,

tanto adirata e triste era la dea da spregiare ogni loro consiglio!

La dea delle ghirlande e della vita della Terra ripeteva che mai più

sarebbe tornata a odorare gli incensi dell’Olimpo, mai più la Terra

avrebbe ridato frutti, se non avesse potuto rivedere con i suoi occhi

la sua bella figlia adorata che era stata rapita con violenza da Ade.

 

Allora Zeus, il cupo dio dei tuoni, vide e capì il proprio sbaglio

e decise di inviare nell’Erebo, nel buio profondo e primordiale,

nel regno delle ombre, il proprio figlio Hermes, l’uccisore di Argo,

il gigante dai cento occhi, affinché il messaggero dal bastone d’oro

coronato di serpenti trovasse le parole per convincere Ade a riportare

Persefone alla luce, traendola dalle tenebrose nebbie di cui era prigioniera

in modo che la madre Demetra potesse vederla con i suoi occhi e cessasse

l’ira implacabile che aveva votato il mondo a una carestia senza fine.

Hermes acconsentì pronto a quella nuova missione e subito lasciò

l’Olimpo per scendere in un baleno nelle profondità oscure degli Inferi.

Il messaggero trovò Ade nel suo palazzo, comodo sul suo trono con vicino

Persefone che non smetteva di invocare la madre Demetra, la quale

intanto da distante continuava a maledire tutti gli dei meditando vendetta.

Avvicinatosi al trono il messaggero dalla verga d’oro disse:

“Ade, signore dalle nere chiome che domini sovrano il regno dei morti,

il padre Zeus, tuo fratello, ti ordina di liberare dal buio la lucente Persefone

e di ricondurla presso i celesti così che sua madre Demetra la veda

con i propri occhi e condoni agli immortali l’aver scatenato la sua collera,

l’ira inesorabile per la quale ha deciso di estinguere le stirpi degli umani

in modo che nessun dio o dea riceva mai più da loro offerte ed onori.

 

Un’ira tremenda è in Demetra, tra gli dei non vuol più sedere e dimora

in disparte in un nuovo tempio odoroso di incensi che si è fatta costruire

sull’impervia fortezza di Eleusi”. Così disse Hermes, messaggero di Zeus.

E Ade, il re degli estinti, nascose la contrarietà in un sorriso

e assecondò il comando di Zeus rivolgendosi a Persefone per dirle:

“Demetra è avvolta nei veli del lutto, Persefone, puoi tornare da lei.

Ma, se rimani qui, dominerai tutto ciò che abita il profondo buio,

riceverai onori da tutti gli altri dei, per sempre nessuno potrà più offenderti.

Saranno duramente puniti coloro che non placheranno la tua ira con offerte,

coloro che non celebreranno con i doni dovuti Persefone, figlia di Demetra.

La potente Demetra ora ha Giove dalla sua parte e se decidi altrimenti

io nulla posso contro di lui, ho creduto di potere oltre quello che posso,

ignoravo che neanche agli dei è dato offendere la Madre Terra.

Da qui io chiedo perdono a te e alle tue schiere, e non so

se varrà a salvare l’umanità dall’incubo in cui è precipitata.

Se puoi non odiarmi, conserva sereni il cuore e la mente”.

 

Così disse Ade, e la Core gioì all’idea di poter tornare dalla propria madre.

Prima che partisse, Ade la pregò di accettare qualche chicco di melagrana

e questo parve a Persefone segno di pacificazione da parte del dio dei morti.

La figlia di Demetra addentò il frutto, che presto posò impaziente di partire.

Ne aveva ingoiato solo pochi chicchi, ignara che avrebbero segnato

il tempo del ritorno. Allora Ade sorrise, Ade che tutto assoggetta

aggiogò i cavalli immortali al suo cocchio d’oro e Persefone vi salì

mentre Hermes al suo fianco prese in mano le briglie. Il carro d’oro

uscì dal palazzo e la giovane dalle belle chiome volò via con Hermes.

Non andarono per mare, né attraverso i fiumi, le valli o le selle dei monti,

ma sfrecciarono tagliando il cielo profondo al di sopra delle montagne.

Hermes, con vicino la dea che infonde vita alle piante, gioiva.

 

Il cocchio li portò dove Demetra, la dea dei papaveri, li attendeva,

davanti al sacrario di Eleusi odoroso di incensi. Vedendo la figlia, la dea

si slanciò verso di lei con entusiasmo di Menade che attraversa i boschi.

Persefone, incrociati gli occhi della madre, lasciò il carro

e di corsa si gettò al collo di sua madre stringendosi a lei.

Ma Demetra, mentre finalmente stringeva la figlia tra le braccia,

percepì un inganno e presa da tremore sciolse l’abbraccio.

Guardando la figlia negli occhi, la interrogò con queste parole:

“Figlia, mentre eri laggiù non avrai toccato cibo? Non nascondermelo,

parla, dobbiamo sapere quello che ci aspetta. Se non lo hai fatto,

tornata quassù vivrai per sempre lontana dall’Ade, altrimenti

per un terzo dell’anno tornerai là sotto nel regno degli Inferi

ad accogliere con il potere della rinascita i morti che discendono a te.

Io senza di te in quel tempo non darò frutti alla terra, spopolerò i prati

dei fiori, celando i semi che solo al tuo ritorno germoglieranno.

Per i due terzi però resterai comunque con me. Quando tu tornerai

dalle cupe nebbie dell’Erebo la terra si riaprirà in fiori odorosi di primavera,

i semi germoglieranno per la gioia dei mortali. Ora dimmi ciò che temo.

Ade, colui che ti ha rapito, ti ha offerto del cibo prima di lasciarti tornare?”.

 

E alla madre rispose sincera Persefone, la stupenda figlia di Demetra:

“Sì, madre, certamente, ora ti racconterò tutto il vero che mi chiedi.

Quando Hermes è venuto per ordine di Zeus a riscattarmi dall’Erebo

affinché io tornassi da te e tu potessi di nuovo vedermi con i tuoi occhi

perdonando gli dei e ponendo fine alla tua collera, ero stordita di felicità.

È stato allora che Ade mi ha offerto un frutto di melagrana, a pacificarmi

chiedendomi perdono, e io ne ho accettato alcuni chicchi, un morso.

Ho sbagliato, madre? Ade era così diverso mentre chiedeva perdono.

Era lo stesso Ade, quello che mi ha gettato sul cocchio per rapirmi

e quello che al cocchio d’oro aggiogava i cavalli per lasciarmi partire”.

Demetra la madre rispose con grave silenzio, perché nessuna, né donna né dea,

ha un rimedio sempre valido di fronte alla doppiezza dei figli di Zeus.

Tacque, la dea delle ghirlande, e il suo silenzio era tremore di monti e valli.

Non disse nulla, perché i mari si innalzano alti sopra le coste a prescindere

dai torti e dalle ragioni degli dei e degli umani. Indifferentemente dal perdono.

Non volle determinare il futuro della figlia, lasciandola libera di scegliere.

Tacque, Demetra. Pur nel dolore che ancora le infuriava dentro, sospese

il suo tremendo giudizio. Era lieta di non aver perduto per sempre la figlia.

 

“Ora – continuò Persefone – ti dirò come fui rapita, ti racconterò ogni cosa.

Ero con le mie compagne nel mezzo di un prato stupendo. Con me c’erano

Leucippe, Fenò, Elettra, Ïante, Mèlite, Íache, Rodea, Callíroe, Melòbosi,

Sorte, Ocíroe dagli occhi gentili, Criseide, Ianira, Acaste, Admete, Ròdope,

Plutò, Calipso, Stige ed Urania, Galassaure, Pallade e Artèmide.

Giocavamo e io godevo del profumo e del colore dei fiori, mischiavo al croco

le iridi, i giacinti, le corolle di rose, i gigli e il narciso che ho colto per ultimo.

In quel momento la terra si è spalancata e Ade è apparso, mi ha portata via

sul suo carro mentre io gridavo senza che nessuno potesse soccorrermi.

Questa la verità, madre mia, se pur con angoscia te l’ho raccontata”.

Per tutto il giorno si confidarono dandosi conforto e rincuorando l’animo.

Circondandosi di cure, entrambe, madre e figlia, guarirono da ogni angoscia.

L’una e l’altra ebbero sollievo e l’una all’altra donò gioia e la ricevette.

Poi venne Ecate, la luna cinta da chiari veli, e stette con loro,

benedicendo Persefone, la Core, la fanciulla nata dalla splendida Demetra.

“Liberate la notte e il giorno – disse Ecate – e non abbiate più segreti né cose

da tacere o confessare. Abbiate la trasparenza dell’acqua e la forza del fuoco.

Il mondo che è attorno corrisponda al vostro cuore e il vostro cuore al mondo,

così che nessun umano e nessun dio d’ora in poi vi possa più molestare.

Custodite in voi il mistero del seme e la bellezza delle stagioni”.

 

Da allora Ecate è, per sempre, guida e compagna di Persefone.