Anche Roma è contro la pubblicità violenta e sessista. Si aprono le polemiche in consiglio, e nella maggioranza, apparentemente per motivi formali, e ritornano gli attacchi rivolti alle ragioni stesse che motivano questa ed altre delibere. C’è un popolo che alimenta una vera tempesta di messaggi facebook e twitter coi quali politici privi dell’onere di grandi decisioni, che sono prese altrove, sfogano una dialettica altrimenti poco esercitata. Tra coloro che vorrebbero cancellare la responsabilità pubblica nella salvaguardia della cultura e delle cittadine c’è, manco a dirlo, Radio24 con la Zanzara.

Brave le femministe, soprattutto per essere le giardiniere costanti di campi altrimenti infestati solo da radici dure da estirpare e che non producono più fiori.

Le norme europee e internazionali già dagli anni ’90 hanno riconosciuto l’esigenza di contrastare, anche nella pubblicità, la diffusione di messaggi lesivi, infamanti e violenti contro la persona. Se, come è ormai affermato anche in sede accademica, sono le donne ad essere bersaglio dei messaggi pubblicitari più direttamente legati a violazioni dei diritti e dell’identità sociale, definire incongrua e frutto di colpevole disinformazione la polemica mai chiusa sull’applicazione di quelle norme, è quasi un eufemismo.

Far recepire alle recalcitranti dirigenze italiane l’esigenza di adeguarsi ad uno standard “almeno europeo” è stato difficile e lo è ancora. Se si fosse trattato di un semplice adeguamento alle norme, l’UDI e i comitati, le associazioni e le intellettuali che più volte sono intervenute nel merito, potrebbero esprimere soddisfazione per via delle tantissime città che hanno risposto alla pressione femminista approvando delibere contro “le pubblicità lesive della dignità femminile”. Ma non si trattava e non si tratta solo di questo. Per chi come noi, e come chi scrive, si pone l’obiettivo politico di mettere a nudo le radici del femminicidio che è la più antica e costante strage di corpi e libertà nella storia di tutto il mondo, il fine di queste azioni è quello di affrontare e sfidare apertamente la cultura che prevede il femminicidio in tutte le sue espressioni dalla violenza economica fino all’uccisione. Le istituzioni italiane intendono combattere la violenza sessuata secondo canoni che antepongono il mantenimento della famiglia tradizionale alla salvaguardia delle persone. La quasi totale soppressione del Welfare è una spinta voluta, per di più onerosa anche per le casse dello stato, a riattribuire i sevizi alla sfera privata quindi alle donne, con l’effetto di una rieducazione permanente al ruolo subalterno. L pubblicità è parte di questa scuola di formazione permanente offrendo modelli e stili di vita contenuti non solo nelle merci ma anche nei messaggi relativamente occulti.

In questi giorni l’amministrazione romana si è allineata alle maggiori città italiane dotandosi di una delibera contro le pubblicità lesive in coerenza alle risoluzioni ruropee: le donne del movimento anche a Roma ce l’hanno fatta. Molti uomini e donne considerano quest’ultimo passo, probabilmente ignorando ciò che già esiste in Italia e in Europa, un affronto alla “loro uguaglianza” secondo la quale tutto ciò che viene fatto in nome di della differenza sessuale sarebbe una mortificazione per le donne e un’ingiustizia verso gli uomini. Si potrebbero ricordare a questi uomini e donne le circostanze per le quali la democrazia è ancora un sogno proprio perché si pretende neutra, salvo a recitare, nella Costituzione Italiana per esempio, principi che impongono ruoli e mansioni subordinati alle donne.

Quando abbiamo iniziato questa lotta, tanti uomini hanno detto di capire le nostre ragioni, uno tra tutti Ico Gasparri da sempre impegnato contro la pubblicità scorretta. Tra questi, tanti uomini hanno però dimenticato, o hanno dimenticato di studiare, e anche dai partiti progressisti si divertono a praticare quello che non si può che definire un anticonformismo patetico e olimpico insieme.

A quelli che stanno reagendo in questo modo, ma a tutti, va forse ricordato che la politica di contrasto alla mala pubblicità ha sbarazzato il nostro paese, e continua a farlo, da vare e proprie apologie di reato. Ancora all’inizio del nuovo secolo erano diffusissime campagne pubblicitarie scopertamente celebrative di stupri e rapporti sessuali con minori, così come erano celebrativi della prostituzione coatta. Sono state ritirate produzioni cartellonistiche che ritraevano bambine truccatissime in pose ambigue, donne imbarcate per rendere piacevoli le traversate in nave, mentre altre venivano offerte con una caffettiera. Alcune venivano ritratte con lividi e segni di violenza, se non addirittura morte per reclamizzare uno straccio “che cancella i segni del crimine”. Qualcosa, poco, è cambiato e qualcuno pensa che sia troppo.

La lotta ai messaggi culturali sessisti ci costringe a guardare molto da vicino il provincialismo culturale italiano.

Provincialismo e debolezza che corrispondono al gesto di genuflettersi di fronte alla supremazia delle altrui economie, alle soluzioni di una finanza importata in modo acritico e con spirito colonialista. Un provincialismo che deriva dalla frustrante spinta ad adeguarsi ad una dimensione incomprensibile che, forse, costringe ad aggrapparsi a residui identitari in un’area ininfluente nelle relazioni tra stati. L’area ininfluente del così detto privato. Molti uomini dei media e della politica sembrano per questo impegnati ultimamente a rivendicare la cultura del bar sport e dei bordelli, dell’esposizione pubblica “degli attributi”. Sembra che la sfida sia superare i limiti di quella che, loro stessi, considerano la decenza. E c’è di più: mentre tutto sembra rivolto alla normalizzazione della disparità, il movimento delle donne ha normalizzato i simboli della differenza vincente sul piano politico e civile. Si è resa visibile da una parte l’incontenibilità e dall’altra la necessità del pensiero femminista. Si è superato cioè il limite entro il quale il pensiero femminile e femminista era legittimato unicamente nella sfera delle azioni solidali e in quella miglioramento dell’immagine istituzionale. A qualcuno, che tutto questo vede con sgomento, è data solo l’arma di superare i limiti della decenza, stabilendo complicità inconsapevoli con quelli che chiama “i nemici della civiltà”, ossia coloro che in senso opposto e speculare usano le immagini femminili per rappresentare l’ordine sociale desiderabile.

UDI di Napoli

Napoli, 26 marzo 2015