Articolo di Cristina Zappa pubblicato su AlfaBetapiù

—-La tigre non grida la propria tigritudine,
la tigre balza, assale e divora la preda

Wole Soyinka

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—-Dal 1989, anno in cui al Centre George Pompidou di Parigi si tiene Les magiciens de la terre, straordinaria esibizione che considera anche l’afro arte, l’interesse della critica per l’Africa appariva sfuggente. Nel 2007, la 52aBiennale di Venezia di Robert Storr include per la prima volta un padiglione africano, con una selezione di opere della Sindika Dokolo African Collection of Contemporary Art (Luanda, Angola), nella sezione Check List Luanda Pop, nelle Artiglierie dell’Arsenale. Nel 2013, mentre Londra accoglie la prima edizione della manifestazione 1:54 Contemporary African Art Fair, la 55 a Biennale di Venezia assegna il Leone d’Oro all’Angola. Bisogna attendere, però, sino al 2015, con Okwui Enwezor, perché 7 Stati africani abbiano un loro padiglione alla 56a Biennale: poca cosa se si pensa che il continente Africano è immenso e conta 54 Stati riconosciuti. Recentemente l’Europa contemporanea, assediata e instabile, sembra essersi svegliata da un torpore etnocentrico. Mentre l’economia dell’immigrazione studia l’impatto economico dei flussi migratori, aggiorna le statistiche in costante crescita e prospetta soluzioni utili a ricavare profitto nei paesi a bassa produttività, l’arte delle migrazioni attrae l’antropologia culturale e la sociologia interculturale e eccita le tendenze dei mercati, dalla moda all’arte.

Il senso di questo rinnovato interesse per l’arte africana induce a alcune riflessioni: è giunta l’ora della resa dei conti, della presa di coscienza, della redenzione, dell’affrancamento o, invece, è l’Economia delle politiche migratorie che condiziona le tendenze del mercato dell’arte?

In simultanea, FM Centro Arte Contemporanea di Milano (Il cacciatore bianco/The white hunter, memorie e rappresentazioni africane, curata da Marco Scotini), la Fondation Louis Vuitton di Parigi ( Être là, Afrique du Sud, une scène contemporaine, curata da Suzanne Pagé e Angeline Scherf) e la Triennale di Milano (La Terra inquieta, curata da Massimiliano Gioni) propongono mostre sull’arte delle migrazioni, evitando di parlare di arte primitiva. Il sostantivo è diventato tabù e l’interesse è centrato sull’arte indigena, dentro cui si leggono narrazioni diverse, da quelle che scansano l’esperienza del colonialismo, che esorcizzano l’immigrazione, la segregazione e la guerra, che scongiurano il global warming, che frenano il sogno consumistico, sino a quelle che assumono un ruolo politico indipendente, contro il capitalismo, creando uno spazio virtuale volto all’incontro e alla conoscenza. Accantonate le prevaricazioni, si mostra l’arte delle migrazioni, incontaminata oppure ibridata, in tutto il fragore folcloristico che la connota. Il colore (arancio, giallo o azzurro) è il comune denominatore nello spazio dei tre musei, le cui pareti tinteggiate di fresco accolgono opere un tempo svilite, e oggi magnificate all’insegna della libertà: quella di far esprimere in maniera roboante il sentimento delle opere stesse, per celare il senso di colpa e evocarne il riscatto dal nero oblio. “La memoria implica un atto di redenzione. Ciò che viene ricordato è stato salvato dall’annullamento. Ciò che viene dimenticato è stato abbandonato” (John Berger). Ma di memorie diverse sembrano narrare le tre mostre in questione.

Con Il cacciatore bianco/The white hunter – collettiva appena appena conclusa di cui abbiamo già parlato qui – la demistificazione si affila e l’occhio del visitatore, dal mirino del cacciatore, si sposta per cogliere alterità declinate in maniera originale e indipendente. Con il florilegio di 36 artisti contemporanei, Scotini va oltre la selezione degli incontaminati, operata da Jean Hubert Martin e André Magnin nei Magiciens de la terre, e mostra una generazione di artisti che estrinseca la diaspora come la propria condizione, porta con sé le ibridazioni e esalta la sua soggettività contagiata o decontaminata. La cabana africana di P.M. Tayou risucchia il visitatore dentro uno spazio avvolto dal mistero, ridimensionando immediatamente l’inquietudine morbosa che pervade l’uomo occidentale avverso la magia del continente nero. I reperti etnografici rivisitati in maniera ironica da Tayou sdrammatizzano la gravità di maschere antropomorfe e risultano un reliquiario ironico di feticci e di souvenir. L’accenno storico alla presenza coloniale e la ricostruzione della Sala Negro Art (13a Biennale di Venezia, 1922) sollevano dalla polvere e dall’anonimato i reperti etnografici (un tempo catalogati con indicazioni fantasiose e imprecise), rivendicando il senso di appartenenza dell’arte africana in uno spazio che, mentre si dilata, concede un grande respiro di decolonizzazione. I colorati disegni e le terrecotte, le sculture e le maquette surreali, le fotografie e i video, gli arazzi e i dipinti, dialogano tra loro democraticamente, scambiandosi significati senza attitudini colonialiste.

A Parigi, dentro il maestoso vascello di Frank Gehry sede della Fondation Louis Vuitton, 16 artisti, appartenenti alla generazione post-Apartheid degli anni Novanta, sono chiamati a rappresentare l’arte contemporanea dell’Africa del Sud. Con Être là. Afrique du Sud, une scène contemporaine, le curatrici Suzanne Pagé e Angeline Scherf offrono alla critica mondiale un buon motivo per riconoscere la valenza espressiva, indipendente e audace, dell’arte contemporanea africana, caratterizzata da una gravosa responsabilità sociale. Opere di una generazione che ha superato le segregazioni e lotta contro le contraddizioni di politiche saldamente corrotte, tenacemente capitalistiche e anche sessiste.

La Fondazione francese traghetta nel terzo millennio l’arte africana in maniera maestosa, tributandole i dovuti onori dopo anni di oltraggi e mistificazioni. È anche un elogio a Jean Picozzi, il lungimirante collezionista che trent’anni fa avviò la più grande collezione privata di arte africana. Lo spazio è dilatato e il tempo si è fermato, per lasciare che lo spettatore inceda cautamente, ma con curiosa avidità, alla ricerca di frammenti visivi e ideologie che ne svelino il senso. Una magnificente selezione, che ripropone artisti di generazioni diverse, influenzati da peculiari attributi (culturali, socio-economici e politici) e diluisce fluidamente opere contaminate, modelli di inclusione o di esclusione. Ogni artista ha una sala dedicata. E così il visitatore si interfaccia con le maschere di R. Hazoumè e di C. Dakpogan, le polimorfe terrecotte di S. Awa Camara e le sculture di J. Goba. Non vi sono condizionamenti spettacolari, ma spunti, occasioni diverse per avviare riflessioni individuali, le stesse che si leggono in ognuno delle centinaia di disegni di visi africani di F. Bruly Bouabré. Lo spettatore cerca di cogliere, dentro ognuna di quelle identità, il senso di appartenenza a una famiglia, a una tribù, a un territorio. E le maquette di B. Isek Kingelez, di architetture oniriche e inusuali, che interrogano l’avvenire politico delle metropli africane diventano un monìto per tutti. Unica cesura, in questa dimensione pacata e ordinata, sembra la triplice esposizione di video di W. Kentridge (Notes towards a model opera, 2015): un collage visivo e sonoro, politico e culturale, geografico e storico, ove l’artista cita il comunismo e la storia politica, sociale e intellettuale della Cina moderna attraverso le otto opere proletarie della rivoluzione culturale cinese (1966-1978). Sugli schermi, performer africani eseguono coreografie straniere, agitando accessori della contestazione (sciarpe e bandiere rosse, megafoni e bastoni), che si mescolano agli sfondi fissi o animati, degli scritti, degli ideogrammi e delle carte geografiche di Parigi, Pechino e Johannesburg, segnate dalle rivoluzioni.

Altra e diversa storia la mostra di Gioni in Triennale a Milano che, anziché cambiare l’angolatura, centra il bersaglio e lo mistifica, creando nel visitatore un’accozzaglia di pathos. Assordati dallo sciaquìo delle onde, prima, e dal gran vociferare dopo, ci si dimentica di essere in un luogo espositivo. La mostra raccoglie variegate tipologie di testimonianze (documenti, video, installazioni, fotografie, dipinti) sui naufragi a Lampedusa e sugli sbarchi nel Mare Nostrum, in una disposizione complicata che intrappola spazialmente lo spettatore. Il contesto drammatico, di un fenomeno strutturale noto a tutti, viene chiosato in maniera cacofonica e disarticolata, si autocommisera e si autocelebra in questa catalogazione scombinata, e i fotogrammi della tragedia si registrano nella mente in maniera nauseabonda. Ci si aspetta una mostra sull’arte delle migrazioni, sulla migritudine, quella che spodesta la negritudine, di cui parla Alain Mabanckou (Collège de France). Ci si trova invece di fronte alla spettacolarizzazione attuale di un dramma epocale iniziato dieci anni fa. Sin dall’accesso si ha una percezione di disagio. Le opere mostrate, che appartengono ad artisti che non vivono nelle terre di cui parlano, appaiono come un coacervo di cronaca giornalistica e di testimonianze non coordinate che, in maniera ossessiva, sbattono in faccia al visitatore il dramma dell’immigrazione siriana e africana, creando disambiguazione emotiva, spaziale e temporale. Non vi è nessuna riflessione artistica sul prima, sul dopo, sull’arrivo nella terra promessa, sull’accoglienza e tantomeno sull’integrazione. L’arte contemporanea dovrebbe attivare processi artistici volti a creare attitudini o trasformarle: questa è una mostra che non comunica possibilità, ha una coscienza immobile e inconcludente, senza nessuna declinazione artistica volta al cambiamento.

La Terra inquieta è una tragica presa d’atto documentale, che mette in discussione il ruolo del curatore artistico. Gioni sfoggia in maniera lugubre la Sofferenza e le immagini servono a attivare un’operazione iconoclastica di ricontestualizzazione museale, funzionale a consacrare una narrazione funerea. Peraltro la scelta curatoriale di mettere in mostra alcuni degli effetti personali di uomini e donne ignare e inermi, alcune delle 368 vittime del naufragio del 3 ottobre 2013 al largo di Lampedusa, e delle 52 persone soffocate nella stiva di un barcone approdato a Palermo il 27 agosto 2015 (Comitato 3 Ottobre) risulta, oltre che un’appropriazione indebita di vite altrui, uno sfoggio funereo di reliquie. Ci si chiede dove sia l’opera d’arte, se l’intero olocausto o i naufragi – remoti o quotidiani –, le violenze – fisiche o psicologiche – precedenti al viaggio o quelle nostrane dopo gli sbarchi. Opere come la barca piena di sacchi neri (Hope di Adel Abdessemed) o il lungo tavolo con gli elenchi di migliaia di N.N.-nomen nescio redatti dalle forze dell’ordine (The List, di Banu Cennetoglu e Nihan Somay in collaborazione con UNITED for Intercultural Action), appaiono una ripetizione del lavoro di Ai Weiwei, artista attivista. E riguardo ai video giova ricordare che ci aveva già pensato il regista G. Rosi a freddare le nostre coscienze (Fuocoammare, film premiato con l’Orso d’Oro al Festival di Berlino 2016).

Être là. Afrique du sud, une scène contemporaine a cura di Suzanne Pagé e Angeline Scherf  Parigi, Fondation Louis Vuitton, dal 26 aprile al 28 agosto 2017     Catalogo Editions Dilecta, 272 pp., € 35

The white hunter. African memories and representation  Catalogo Archive Books, FM Centre for contemporary Art Series, 2017, 296 pp., € 25 pubblicato in occasione della mostra Il cacciatore bianco/The white hunter. Memorie e rappresentazioni africane , a cura di Marco Scotini, Milano, FM-Centro per l’arte contemporanea, conclusasi il 6 giugno 2017

La Terra inquieta-The restless Earth  a cura di Massimiliano Gioni  Milano, Triennale, dal 28 aprile al 20 agosto 2017 Catalogo Electa, 312 pp € 45