Sequence frame showing a woman visibly distressed passing the scene of the terrorist incident on Westminster Bridge, London.
Pictured: Medics and passers by treat a victim on Westminster Bridge, London
Jamie Lorriman

Proponiamo questo articolo di Beatrice Toniolo per porci e porre alcuni interrogativi.

Dell’attacco terroristico di Londra, nell’immginario collettivo è rimasta una sola immagine probabilmente: la foto scattata da Jamie Lorriman che ritrae una donna musulmana passare accanto ad un ferito sul Westminster Bridge. Mezzo mondo si è subito indignato, inveendo ed insultando quella donna, la cui unica colpa era ovviamente una sola: indossare il velo, ergo musulmana.

La verità è emersa praticamente subito e lo stesso fotografo ha rilasciato interviste per chiarire che la protagonista di quell’immagine era visibilmente scossa e non, come mezzo occidente ha maleinterpretato, indifferente alla tragedia.

Basta ingrandire l’immagine, nemmeno di troppo, per notare l’espressione spaventata di questa persona e intuire che se ha il cellulare in mano, è perché sta rassicurando i suoi parenti di essere sana e salva. Un secondo scatto ritrae ancor più chiaramente il volto spaventato e lo sguardo perso.

Chiarito il malinteso – dove “malinteso” è un eufemismo – molte donne musulmane il giorno dopo si sono prese per mano proprio sul Westminster Bridge, formando una catena, sperando di comunicare (di nuovo, perché chiaramente non basta mai) che c’è una differenza abissale tra Islam e terrorismo e per protestare contro il mix letale di islamofobia e sessismo.

Questo episodio dovrebbe sollevare diversi interrogativi: cosa sappiamo delle donne musulmane? Islam e femminismo sono conciliabili?

La risposta al primo quesito si compone di più elementi. Uno è certamente il più facile da individuare: il nostro atteggiamento di occidentali verso l’Islam. Guardiamoci intorno. C’è paura, c’è diffidenza, c’è ignoranza. Dai politici che incitano all’odio alla tragica incapacità di distinguere un tipo di copricapo islamico da un altro; a volte è semplicemente “il velo” a volte, per suonare più eruditi, è il “burqua” – le declinazioni nel mezzo non importano.

Un secondo elemento è ben esplorato nel saggio di Laura Navarro Islamophobia and Sexism: Muslim Women in the Western Mass Media (2010) che è un po’ una summa di varie ricerche sul tema della rappresentazione delle donne islamiche in occidente.

Navarro esplora come i media siano effettivamente uno strumento di costruzione sociale ed influenzino la nostra immaginazione – come viene presentato ogni singolo evento relativo al mondo arabo/islamico?

I media contribuiscono giornalmente a rafforzare la cultura “dell’altro”, ponendo costantemente in contrasto “noi” buoni contro “loro” cattivi, riducendo sistematicamente e impietosamente la religione islamica e i musulmani ad una collezione di stereotipi. Fondamentalmente, l’Occidente vede e presenta le culture e nazioni islamiche in base ad una percezione eurocentrica – noi siamo ragionevoli e civili, loro sono barbari seguaci di una religione irragionevole e violenta.

Questa manipolazione delle informazioni stabilizza il controllo della classe politica sulla maggior parte della popolazione ed è quindi capace di “indirizzarla” verso una direzione (di voto e non solo) o l’altra.

E le donne musulmane?

Le donne musulmane sono vittime della loro religione (perchè i loro uomini sono barbari), ma anche minacce per il nostro Occidente, in quanto seguaci di Maometto. La (voluta) distorsione della religione islamica in Occidente le percepisce sottomesse, non scolarizzate, ma con una sensualità nascosta – soprattutto questo ultimo attributo, suggerisce Navarro, è una triste eredità del XIX secolo, quando le donne di altre culture venivano descritte, fotografate o soprattutto disegnate (ricordate le vecchissime cartoline?) come esotiche, sensuali, attive e provocanti, in contrasto con l’angelo del focolare domestico occidentale di memoria Vittoriana. Le vecchie cartoline di guerra che ritraggono le donne abissine mezze nude o madri esemplificano meglio di ogni altra cosa questo genere di rappresentazione subito dalle donne non bianche.

Insomma, sotto quel burqa c’è di più.

Ed il burqa o il velo è tutto quello di cui parlano gli occidentali quando si parla dei diritti delle donne musulmane. Il diritto allo studio, ad uscire di casa da sole, ad essere padrone proprio corpo, a non diventare vittima di femminicidio… tutto questo viene accettato come parte del discorso femminista occidentale per le occidentali– discorso fatto sia da uomini (ci piacerebbe fossero più numerosi) che da donne, le terribili femministe, appunto.

Uomini e donne occidentali si uniscono invece quando si tratta di discutere delle musulmane ed il problema si riduce unicamente al velo – se lo porti sei sottomessa, se non lo porti… di che religione sei?  Che poi la vera distinzione tra donne sottomesse o no risieda nella possibilità di studiare o aver studiato, questo non sembra importare al discorso occidentale, perchè i media escludono, sistematicamente, la rappresentazione delle musulmane moderne, scolarizzate, femministe: le donne musulmane sono madri, mogli e ovviamente, molto musulmane.

Quando ne sentiamo parlare, sono solo vittime di un uomo che seguirebbe i dettami della religione – cioè l’Islam – preferibilmente scegliendo storie tragiche scelte fra i tanti orrori della guerra. Le schiave dell’Isis sono vittime, sì, ma non di una religione, bensì di fanatici terroristi, ma i nostri media questa distinzione non ce la sottolineano – e insomma torniamo al punto di partenza dove “noi” occidentali siamo minacciati da “loro” maomettani.

Le scienziate, professoresse, ricercatrici, dottoresse, attiviste, femministe islamiche esitono. Ma noi non ne sentiamo parlare; naturalmente potremmo tutti cercare di documentarci in rete, ma quanti lo fanno? La Tv esiste per questo, per portarci le notizie, per risparmiarci la fatica di cercarle.

Ed è così che, come nel caso della foto di Londra, una donna musulmana generalmente priva di voce per l’Occidente, acquista una voce-non-voce, quella del suo velo, della sua religione che noi percepiamo come minacciosa.

Quindi le donne musulmane hanno una voce loro? Certo che sì.

Una delle più interessanti (e sottolineo una, perchè ce ne sono moltissime) è quella di Mona Eltahawy, giornalista di origini egiziane e autrice del libro Headscarves and Hymens: Why the Middle East needs a sexual revolution – pubblicato in Italia da Einaudi con un titiolo meno provocatorio: Perchè ci odiano – la mia storia di donna libera nell’Ilsam. Eltahawy ha anche tenuto una brillantissima conferenza con Ted Talk, dove esplora i temi della religione e del femminismo islamico con un tocco irriverente a dir poco irresistibile, basti pensare alla frase d’apertura:

“Sono musulmana. Sono femminista. Sono qui per confondervi.”

Ripercorrendo la storia stessa di Maometto, la scrittrice spiega al pubblico occidentale che la nostra percezione formata dai media è sbagliata e non solo: gli stessi uomini musulmani sono spesso terribilmente ignoranti circa la loro religione. Spoiler alert: la prima moglie di Maometto era più vecchia di lui, era ricca ed indipendente. Il loro fu un matrimonio monogamo e felice. Khadija, la prima musulmana, spesso chiamata la “Madre di tutti i credenti”, era tutto quello che le donne musulmane non sono – ne in Occidente nè a casa loro oggi. Al marito profeta diede una figlia, Fatimah, che lui adorava. E le donne sottomesse ed inferiori? Ops!

L’opera scritta ed orale di Mona Eltahawy vuole stimolare e provocare gli occidentali a ripensare quello che pensiamo di sapere sull’Islam, sulle donne musulmane e sul femminismo islamico che c’è, forse (sottolineo forse) è un po’ più lento e meno appariscente del “nostro”, ma c’è. Forse, sono i media a non volercene parlare.

Forse sarebbe ora di superare la paura, ripensare a quanto ci è stato inculcato e abbracciare un femminismo veramente intersezionale – di cui si parla tanto – e combattere la misoginia causata dall’islamofobia.

Il fatto che le donne musulmane in carriera scelgano spesso di indossare il velo finisce quasi sempre per innervosire noi occidentali, perchè (erroneamente) quell’indumento è l’unica ingiustizia ai danni dalle donne secondo il nostro metro. Tradotto: il velo a noi proprio non piace. Quindi andiamo a pontificare “sull’ultimo” dei problemi e creiamo divisione, intolleranza, perpetrando rabbia e stereotipi.

Il velo per noi equivale alla invisibilizzazione della donna (in teoria, perchè poi nella pratica se una lo indossa la vediamo e la additiamo eccome, per tornare sempre a Londra), alla sua vita regolata solo secondo la nostra idea di Islam e quindi alla sua vita sessuale da vittima dl “loro” uomo musulmano. Come se noi donne occidentali non avessimo problemi a causa della “nostra” religione.

Questi “loro” uomini, quando poi diventano immigrati, per la maggior parte di noi occidentali sono automaticamente terroristi (perchè musulmani) e ci fanno paura. Al contrario, le vittime musulmane immigrate, senza gli uomini, quasi non c’interessano – diventano appunto invisibili – poichè vittime non possono essere bombarole come gli uomini, e qui potremmo infilarci in uno studio potenzialmente infinito circa la (deplorevole) visione tradizionale della donna occidentale quale angelo del focolare domestico, quella che protegge e da la vita, non la distrugge al contrario del maschio. Ma non è questa la sede ed il femminismo si batte anche contro questa idea.

Concludo citando le parole di Mona Eltahawy:

“Combatto contro le pigre stereotipizzazioni delle donne islamiche e combatto contro la misoginia. Le donne sono vittime di innumerevoli soprusi perpretrati in nome dell’Islam, ma quello non è vero Islam e questa religione appartiene anche a me.”