Ne parliamo con Giorgia Linardi, referente italiana di Sea-Watch, per capire cosa vuol dire occuparsi di soccorso in mare in un momento che vede le organizzazioni umanitarie sotto attacco.  Giorgia Linardi ha studiato relazioni internazionali e diritto internazionale a Milano e Ginevra. Ha seguito le vicende legate alle migrazioni nel Mediterraneo centrale e all’emergenza umanitaria seguita alla crisi libica. Terminato un master in Svizzera, dove ha collaborato con agenzie delle Nazioni Unite, tra cui l’UNHCR, è partita come volontaria per Lampedusa dove ha iniziato a collaborare come consulente legale per l’ong tedesca Sea-Watch, di cui dal 2018 è portavoce in Italia. L’abbiamo intervistata per capire meglio cosa vuol dire occuparsi di soccorso in mare in un momento che vede le organizzazioni umanitarie impegnate nei salvataggi al centro di aspre critiche e continui attacchi.

In cosa consiste il tuo lavoro di tutti i giorni e come si svolge?

Il mio lavoro non è routinario, non ho una sede di lavoro fissa. Sono la referente italiana di Sea-Watch, l’organizzazione per cui lavoro che ha sede a Berlino, in Germania. Vivo a Roma, ma mi sposto dove serve: spesso mi capita di svegliarmi in un posto e andare a dormire in un altro a seconda di quello che succede. Sea-Watch si occupa di soccorso in mare e, ora che siamo sotto i riflettori, i ritmi del mio lavoro di portavoce sono diventati ancora più serrati. Le mie attività sono varie: posso passare da rivedere dei documenti a fare consulenza strategica all’equipaggio a bordo nel momento in cui si trova a operare dei soccorsi, relazionarmi con reti e contatti a livello politico, interfacciarmi con i media, o partecipare a incontri e conferenze in cui si raccontano le nostre attività e si cerca di dare spazio a un dibattito più costruttivo e informato rispetto alla propaganda e all’informazione che i media generalisti fanno sulle nostre attività. Per esempio: stamattina mi sono alzata e ho scritto una bozza di documento da mandare a un’autorità a livello governativo, ho aiutato una collega in Germania a rivedere un documento da mandare a un organismo internazionale, ho parlato con un’altra collega sugli aspetti legali che riguardano la possibilità di tornare in mare alla luce degli ultimi sviluppi, nel pomeriggio prenderò un volo per Roma dove ho un appuntamento con un’organizzazione che vuole supportarci.

Come è fatta una giornata tipo su una nave impegnata nei salvataggi?

Nel ruolo di portavoce non sono spesso a bordo, ma posso raccontarvi cosa succede tutti i giorni su una nave Sea-Watch perché sono stata consulente legale a bordo. Ci si sveglia la mattina presto e, come prima cosa, si fa riunione: si fa il piano della giornata, si condividono le informazioni operative e gli aggiornamenti. Si fa formazione medica, tecnica o si approfondisce il contesto politico-migratorio. Ovviamente si è sempre pronti a svolgere attività di soccorso: le navi infatti pattugliano le acque internazionali. Non aspettiamo in porto che qualcuno ci chiami ma partiamo a prescindere. Questo perché per arrivare in acque internazionali dove di solito si interviene ci vuole una giornata di navigazione quindi, se aspettassimo in porto, arriveremmo troppo tardi. I barconi vengono o avvistati o segnalati dalla guardia costiera, di solito quella di Roma.

Che formazione hai e come sei arrivata alla determinazione di fare questo lavoro: quali sono state le tue motivazioni?

Mi sono formata come giurista, ho studiato relazioni internazionali e scienze politiche in Italia e poi ho fatto un master in diritto internazionale in Svizzera dove mi sono focalizzata su diritto della migrazione e diritti umani. Ho iniziato collaborando con le Nazioni Unite e l’UNHCR nei quartieri generali di Ginevra, non sul campo. Sono per metà siciliana e la mia famiglia è originaria di un piccolo paese vicino al Cara di Mineo, uno dei più grandi centri di accoglienza per richiedenti asilo d’Europa, e questo ha avuto un impatto importante nella mia vita: nel 2011 mi trovavo per le vacanze di Pasqua in Sicilia e ho avuto modo di osservare i cacciabombardieri partire per andare a bombardare la Libia perché il consiglio di sicurezza dell’Onu aveva autorizzato l’intervento armato, e allo stesso tempo l’arrivo di migranti che venivano sistemati in questo centro e addirittura alcuni che si incamminavano verso nord tentando di attraversare l’Italia. Questa immagine mi colpì tantissimo, scrissi entrambe le tesi sulla questione della migrazione nel Mediterraneo centrale dal punto di vista del diritto. Terminato il master decisi di andare a vedere da vicino che cosa succedeva nel mio mare e per caso venni a conoscenza di questa piccola ong tedesca appena nata, Sea-Watch che cercava un consulente legale disposto a trasferirsi a Lampedusa per supportare l’inizio della missione e l’equipaggio nella formazione sulle procedure di soccorso e i rischi a livello legale e così da Ginevra mi trasferii a Lampedusa. Il mio ruolo dentro l’organizzazione con il tempo è diventato più importante e più stabile, questa è diventata la mia vita a tempo pieno dall’autunno 2016 quando ho coordinato un progetto in Grecia nell’isola di Lesbos e poi sono tornata nel Mediterrano centrale prima con Medici senza frontiere e poi di nuovo con Sea-Watch, ma questa volta con un ruolo più rappresentativo.

Se dovessi spiegarci perché le ong operano salvataggi nel Mediterraneo e come si inquadra il loro operato nell’ambito delle politiche europee?

Le ong operano nel Mediterraneo dal 2015, di fatto per sopperire a un vuoto lasciato dalle istituzioni in termini capacità di soccorso. Fondamentalmente si osservava che sempre più persone erano lasciate affogare nel mar Mediterraneo e dopo l’operazione mare nostrum non era stata più istituita una missione governativa tantomeno a livello europeo con un chiaro mandato di soccorso. Le organizzazioni umanitarie hanno riconosciuto che ci fosse un’emergenza umanitaria in corso e che fosse necessario organizzarsi in qualche modo e dare una risposta. Le ong in mare sono diverse e con diverse motivazioni. Ci sono quelle più grandi come Medici senza frontiere, che sono intervenute per fronteggiare una crisi umanitaria che stava avvenendo in mare. Le più piccole, come la stessa Sea-Watch, nascono dalla volontà di cittadini europei che non possono accettare che persone affoghino in mare ai confini dell’Europa e visto che gli stati europei temporeggiano nell’assumersi la responsabilità dei soccorsi hanno deciso di andarlo a fare in prima linea per cercare di salvare vite ma anche di fare testimonianza e denunciare la mancanza di responsabilità dei governi. Si tratta insomma dell’iniziativa libera e indipendente di civili che in mare con un mandato prettamente umanitario compiono un atto di umanità e solidarietà e di fatto colmano un vuoto di politiche: salvano vite, testimoniano e denunciano. Questo ne ha fatto un testimone scomodo che negli ultimi tempi si è cercato in tutti i modi di eliminare dal Mediterraneo, tanto che adesso siamo quasi nelle condizioni di non poter operare.

A proposito di vuoto governativo, quali sono le politiche migratorie che auspicheresti?

Partiamo dal presupposto che spesso si rivolge questa domanda alle ong e ci si aspetta che abbiano le risposte. Noi non siamo policy makers, è chiaro che lavorando in questo contesto ci si fa un’idea, ma sta ai nostri rappresentanti sviluppare politiche. Di sicuro loro sanno meglio di noi quali strumenti possano essere messi in pratica. Ci sono tre livelli: il prima, il mare e il dopo e bisogna stare attenti a non confonderli, che è esattamente quello che sta succedendo adesso, momento in cui le questioni di terra si discutono in mare sulla pelle delle persone soccorse. Abbiamo situazioni in cui le persone non vengono soccorse o si lasciano le persone soccorse sulle barche in mare perché nessuno stato si vuole prendere la responsabilità dell’accoglienza. Si fa in modo che ci siano sempre meno assetti in area che possano prestare soccorso e si rimanda tutto alla Libia. Questo è il punto di base. Bisognerebbe lavorare a un progetto di stabilizzazione dei paesi di origine, una cosa che sembra facile a dirsi ma che è impensabile aggiustare in un attimo, anche perché si tratta di dinamiche non solo interne ma su cui l’Europa ha una grande influenza. Andrebbe cambiato l’atteggiamento di presenza e investimento europeo in questi paesi cercando di pensare allo sviluppo di questi paesi e non allo sfruttamento di risorse nel nostro interesse mettendo muri davanti alle persone che da questi paesi scappano perché ci sono stati dei mutamenti che non consentono di viverci in condizioni accettabili.

Secondo te esistono modi efficaci per occuparsi della crisi libica?

Bisogna lavorare a un processo di stabilizzazione della Libia che richiede anni, è molto complesso. L’Europa dice che si sta impegnando in tal senso, in realtà la gran parte dei fondi vanno al contenimento dell’immigrazione, quindi ai centri di detenzione per migranti e al potenziamento della guardia costiera e non alla ricostruzione e stabilizzazione del paese. In Libia bisogna ripartire praticamente da zero ed è un processo che richiederà anni. Durante questi anni purtroppo ci saranno partenze ed è importante far sì che ci siano dispositivi per cui le persone non vengano lasciate morire in mare. Quello che viene fatto in questo momento è potenziare la guardia costiera libica che non è sufficientemente formata e attrezzata e soprattutto una volta salvate le persone le riporta in un paese dove per i migranti non ci sono condizioni di sicurezza, le loro vite sono a rischio e questo è stato documentato ampiamente.

Quali strumenti servirebbero per contrastare davvero il traffico di esseri umani?

Servono strumenti diversi in origine: corridoi umanitari, lavorare sui meccanismi di ricollocamento, visti umanitari. Purtroppo però è impensabile eliminare il traffico nel giro di poco perché ad oggi rappresenta una delle tre principali fonti di ricchezza dello stato libico insieme al traffico di petrolio e a quello delle armi. Il fatto che siano queste le principali entrate della Libia ci dà un’idea di quanto bisogna lavorare e quanto non sia facile invertire la rotta nel breve termine. L’Europa non vuole vedere e continua a puntare tutto sulla Libia, ma la Libia è un paese su cui non si può contare per la gestione dei migranti, un paese che va completamente ricostruito in quanto tale. E poi c’è un problema razziale e un lavoro culturale forte che va fatto. Da un punto di vista delle politiche europee, ci sarebbe sicuramente da pensare a una ridistribuzione più equa delle persone sbarcate tra i diversi stati europei sulla base del trattato di solidarietà tra gli stati, cosa che permetterebbe alle persone di essere facilmente integrate, anche solo in Italia. Premettendo che non stiamo parlando di numeri tali da giustificare le millantate invasioni, l’Unione europea esiste ed è giusto che ci sia una ridistribuzione, l’ong Seawatch su questo si fa portavoce e fa molta pressione in Germania. C’è da pensare una politica di integrazione diversa, che sia nelle mani dei comuni ma che sia controllata e non appaltata senza i dovuti accertamenti sul rispetto di determinati standard.

La cosa più importante da cambiare nell’immediato secondo te?

La cosa più importante da cambiare in questo momento è la percezione e la narrativa, dire oggi accoglienza significa riferirsi a qualcosa che oscilla tra “un’opportunità per lucrare e sfruttare” e “un grande peso” quando potrebbe trattarsi di qualcosa di diverso e ci sono degli esempi positivi in questa direzione. Comunità che hanno la volontà di accogliere, un progetto non semplice che se attivato nel modo giusto dà i suoi frutti perché le persone che arrivano hanno tutta la volontà di inserirsi, di lavorare e di ricostruirsi una vita. Non è facile ma quello che abbiamo visto finora è anche una mancata volontà di far funzionare un disegno del genere. Sintetizzando, direi che si dovrebbe intervenire a tre livelli. Nei paesi di origine: lavorare sulla creazione di vie legali e sicure, sulla stabilizzazione della Libia come paese che non può essere in questo momento responsabile per il contenimento dei flussi migratori dall’Africa, flussi che nei prossimi anni andranno ad aumentare. In mare: attivare dispositivi di ricerca e di soccorso europeo, quindi non basati solo sugli sforzi della guardia costiera italiana e delle ong come è stato fino ad oggi, serve una missione coordinata a livello europeo. In Europa: un maggiore sforzo sull’equa distribuzione delle responsabilità rispetto all’accoglienza non solo in termini di finanziamenti ma di servizi volti all’accoglienza a livello trasnazionale. Tutte cose che non sono impossibili.

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